mercoledì 29 dicembre 2010

Finché Orte non ci separi


Cara, ti scrivo perché si appresta la fine dell'anno, ed io mi appresto a lasciare il paese. Non vado in vacanza, non sarà un viaggio di piacere, non staccherò la spina per qualche giorno. No, sarà una vera e propria fuga.
Ti scrivo perché so che altrimenti nemmeno te ne accorgeresti della mia assenza; e perché l'ultima volta che siamo stati insieme tu non hai speso neanche un nanosecondo del tuo nobile tempo a chiederti il senso di certi gesti insoliti che ponevo volutamente alla tua attenzione, come quando mi misi a preparare la valigia sul tavolo del ristorante mentre aspettavamo il dessert, e tu riuscisti a dire soltanto: "In quella valigia c'è una camicia molto più bella di questa orrenda che hai stasera. Dovresti avere più gusto nel tuo abbigliamento quando sei con me!..."
Ti scrivo per dirti che non rinnego quello che c'è stato tra noi, o almeno non tutto. Infatti dei primi due giorni del nostro amore ho un ricordo bellissimo. Quello che mi fotte sono i quattro anni e mezzo venuti dopo. Ma non è tua la colpa di questa rovina, o almeno non solo. Anch'io naturalmente ho grosse responsabilità, e me le assumo tutte. Ad esempio ho la grave responsabilità di non averti mandato a fare in culo quella volta in cui facesti sparire il cavo della tv (facendomi perdere metà finale di coppa del mondo..) per punirmi di quando, scherzando al semaforo con un lavavetri, ti indicai e dissi: "Mi spiace non ho spiccioli, prendi lei!..."
Ti scrivo per dare una tregua alla tua frenesia da menefreghismo latente. Leggendomi forse potrai finalmente capire che anche oltre te c'è vita. E poiché forse c'è vita persino su Marte, io inizierei a farmene una ragione: esiste un bel pezzo di mondo che dovresti iniziare a considerare, sono circa 5 miliardi e 999 milioni. Non dico che li devi rispettare, stimare, amare e ascoltare tutti contemporaneamente. Ma anche con un solo essere alla volta puoi toglierti belle soddisfazioni.
Ti scrivo per giustificarmi per quando sentirai la mia mancanza. Al bar al momento del conto; fuori la porta di casa quando vedrai i sacchetti dell'immondizia incapaci di gettarsi autonomamente; davanti al frigo vuoto; dietro al portabagagli dell'auto pieno di buste da portar su. Però so che vivrai con un pizzico di malinconia anche il ricordo di quel momento in cui, mentre ti spogliavi dagli abiti e dallo stress di giornata prima di andare a letto, io venivo a poggiare le mie labbra sul tuo collo e tu rilassavi la testa all'indietro, fermandola sulla mia spalla. Poi restavi così per il tempo di un lungo sospiro, e di un pensiero sommesso: "..ora va meglio.."
Ti scrivo perché sono alla stazione di Orte e il treno che sto aspettando è in ritardo. Eccolo, è arrivato. Cerco un posto libero e mi sistemo. Quindi rilascio anch'io la testa all'indietro, sul poggiatesta del sedile. "Ora va meglio", penso. Si parte.


lunedì 20 dicembre 2010

Gocce di poesia - Atto IV



LA FACCIA BIANCA DELLA FECCIA



C’era una vecchia strega dai vecchi capelli,
che restava in piedi e non parlava,
e, se lo faceva, soltanto voleva gridare alla terra che in fondo l’amava.
C’era una vecchia strega dagli occhi richiusi,
che a sentire il mondo si esercitava,
e i tanti timori, che prima vedeva, così li ignorava e li esorcizzava.
C’era una vecchia strega dai tristi sorrisi,
che più dell’amaro non sopportava,
e quando la gente la prendeva a calci, e il sangue colava, lei sghignazzava.
C’era una vecchia strega dai poveri stracci,
che destava pena per come vestiva,
e cosa importava se aveva qualcosa da dire, d’avere, o di dare chiedeva.
C’era una vecchia strega dai luoghi comuni,
che non s’abbassava a chi la circondava,
e già immaginava che, a volerla morta, era chi poi dell’odio si scandalizzava.

martedì 14 dicembre 2010

Se la violenza è un'esigenza


Le immagini riprese da un obiettivo costituiscono la più autorevole e consapevole delle limitazioni a cui siamo soggetti come esseri pensanti.
In un quadrato privo di profondità è disegnata una scena a cui dobbiamo necessariamente far riferimento per conoscere cosa sta succedendo in un determinato luogo. E' il fumo è fumo, la polvere è polvere, i vetri infranti sono vetri infranti, le mazze sono mazze, i caschi sono caschi, le bottiglie rotte sono bottiglie rotte. Tutto è come sembra che sia.
Invece no, o quantomeno non del tutto: mancano le emozioni, manca la riflessione, manca il sentimento. Manca la vita.

Se le immagini di un obiettivo fossero la sola testimonianza accettata, il mondo non avrebbe motivo d'essere vissuto e capito. Poiché basterebbero quelle immagini a dire chi sono i buoni e i cattivi, cos'è giusto e cos'è sbagliato, cos'è il bene e cos'è il male.
D'altronde se si lancia una bottiglia rotta, se si tenta di colpire le forze dell'ordine, se si accendono fumogeni e bombe carta, come si pretende di non realizzare immediatamente da che parte non sta la ragione? E' chiaro che non sta dalla parte di chi rompe.
Oltre al rischio dell'incolumità pubblica, vige il principio che chi rompe arreca danno all'intera comunità. Non si discute. Bidoni dell'immondizia dati alle fiamme, vetrine infrante, sampietrini divelti: è tutta roba che poi dobbiamo ripagare noi cittadini. E chissà quanto ci costa il tutto ogni volta. Ma il punto è che non si fa. La violenza è male, e basta.

Un parlamentare cambia fazione politica rispetto allo schieramento che lo ha eletto, e lo dice pubblicamente alla stampa motivando la scelta con poco nobili, ma concrete esigenze economiche. La "Realpolitik" di oggi.
Il proprietario di un'azienda che ha truffato i suoi risparmiatori e lo Stato per milioni e milioni di euro appare in aula in giacca e cravatta, durante il processo, con una sobrietà tale che nessuno si lascerebbe andare a commenti violenti e sprezzanti su un vecchio che attende pacato il suo verdetto di colpevolezza per essersi macchiato di reati tanto gravi.
In parlamento poco onorevoli deputati vengono alle mani, sghignazzano, si prendono in giro biecamente, straparlano lasciando per strada errori e ignoranza, esultano con tifo da stadio, vincono e perdono continuamente sulle spalle nostre da quasi vent'anni. E' al microfono tutti fanno tutto sempre e solo "per il bene del paese". E' evidente che la dignità non vale più a certi livelli.

Nulla è rotto, spaccato o divelto. Eppure sento di esser soggiogato da un padrone che è, e sarà, sempre più potente di me; glielo leggo negli occhi che si diverte a scherzare con il potere che detiene; vedo nelle sue manifestazioni formali e nei suoi riti da farsa la rappresentazione di una continua umiliazione ai miei danni. Di continuo la mia coscienza viene brutalmente stuprata dalla normalizzazione dell'immoralità e dell'ingiustizia.
Allora guardo le immagini dei passamontagna, dei caschi, delle sciarpe che coprono i visi di giovani che, più o meno consapevolmente, danno sfogo a un malessere indotto dalla violenza quotidianamente esercitata sul popolo spettatore pagante. E non provo sbigottimento. Non mi scandalizza la rabbia. Non resto sorpreso da alcun fotogramma di questa guerriglia, neanche da quello di un poliziotto che resta a terra dolorante. Anzi finisce che mi pare tutto logico e dovuto. Quasi naturale.


Da che il mondo è mondo alla violenza si risponde sempre con la violenza.

giovedì 2 dicembre 2010

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo II (parte 2a)

 - SEDOTTA E ABBANDONATA -
parte seconda
(qui la prima parte)



Mentre Apollonio beve, ride e chiacchiera amabilmente, Lepido è perso nel divano di casa a soffrire per un dannato mal di denti.
Dannato in quanto opera del demonio, essendo convinzione comune che siano opera demoniaca tutti i mali subiti dall’uomo. O forse dannato perché la casa del demonio è la casa dei dolori, la casa degli esseri trapassati che non soffrono le pene dell’animo bensì quelle del corpo: mal di denti; continue emicrania; distorsioni multiple alle caviglie; chi tossisce come farebbe Fausto Leali se ingoiasse un amplificatore; orecchie che fischiano come se dentro vi si fosse insediato il buon vecchio Trapattoni; una sorta di post-vecchiaia insomma. Grandezze dell’uomo: non sa cosa si cela dopo la morte, se qualcosa si cela, ma in compenso ha avuto già la prontezza di attribuire all’inferno questo presunto status di casa di cura per malati terminali. Miracoli della metafisica.
Ma dicevamo di Lepido. E’ a casa sua con la bocca stretta a mugugnare un malessere che farebbe soffrire persino Chuck Norris, figuratevi quindi una persona normale con una soglia del dolore bassa quanto la dignità di Dell’Utri.
Steso sul divano, Lepo tenta di intrattenere il suo sistema nervoso con uno sfrenato zapping televisivo: dieci secondi per canale, non di più. Ma il veloce giro di giostra tra le trappole del piccolo schermo riesce a fare più danni del previsto. Ad ogni stazione la sofferenza aumenta invece che diminuire, come nella via crucis.
Rai 1, “Porta a porta”: una scarica elettrica parte del dente e pervade le gengive.
Rai 2, un telefilm tedesco con attori rubati alle soap opera del Liechtenstein e un regista che sicuramente sarà morto suicida poco dopo aver visto il suo lavoro: “ma vaffanculo!..” sillaba sommessamente Lepo, mentre si accorge che la corda del dolore sta unendo pericolosamente i denti al cervello, per preparare un golpe d’altri tempi.
Rai 3, approfondimento giornalistico con “Linea notte”, La Russa che sbraita, Cirino Pomicino che lo bacchetta, colpe e meriti ancora da attribuire dopo vent’anni di governi vari: “morite!”, sussurra Lepo, con le tempie che vibrano come percussioni.
A Rete 4 dei porci parlano di Avetrana e Sarah Scazzi, a Canale 5 c’è “Matrix” e il cinepanettone, a Italia 1 un poliziotto che tenta di risolvere un omicidio dopo aver indagato anche nel buco del culo della vittima, a La 7 c’è La 7: “MA CHE SCHIFO, BASTAAA!!!...”. Lepo si vendica e con le poche forze rimaste lancia il telecomando contro il muro, poi si alza e calcia il televisore, che si abbatte sul lato destro e non si rompe solo perché è abbastanza vecchio da resistere a certi traumi. Pochi istanti di libidine da sfogo e si dimentica pure per un momento del dolore maledetto. E’ arrivato il momento di cercare Apollonio. Lepo gli manda un sms: “Fra un po’ spacco tutto, ho già iniziato con la tv. Vieni e porta un film di Lino Banfi. Mi servono risate stupide e qualcuno che mi faccia da tata!...Grazie.”
Apollonio è sempre con Camilla. Sono ormai due ore che parlano. Ma questo loro non lo sanno, dovete fidarvi della mia parola. Perché per loro il tempo si è volatilizzato, scacciato da quella manifestazione straordinaria della realtà che è la serenità. Sanno soltanto di essere uno di fronte all’altra, e non gli dispiace. Ma l’arrivo di quell’sms è una secchiata di acqua fredda su un corpo nudo addormentatosi al sole.
Cosa c’è?”, chiede Camilla.
Niente, niente...”, risponde distratto Apo.
Ma lo capirebbe pure Calderoli che sta mentendo. Gli occhi non fissano più dritti il volto di Camilla, restando invece ancorati all’asfalto grigio, che racconta meglio di ogni altra cosa quanto può essere monotona la realtà che ognuno si sceglie. Allora prende vigore e spara: “Mi spiace Camilla, ti devo lasciare. Ho un amico che non sta bene..
Neanche termina il suono dell’ultima sillaba delle parole di Apo, che già Camilla ci si fionda dentro con le sue: “Ma che ha il tuo amico? Sta morendo? No perché se non è in fin di vita, allora sappi che sei un coglione!
Apo vorrebbe dire tante cose, ma ha paura di sprecare tempo per non essere compreso. Vorrebbe dire a Camilla che un giorno sarà lui ad aver bisogno di sostegno, e quel giorno Lepido ci sarà sicuramente; ma se anche così non fosse, lui ora ha questa certezza e vuole coltivarla fino in fondo. Vorrebbe dire a Camilla che dopo quel messaggio lui non sarebbe stato più lo stesso di prima, e forse è meglio che si faccia da parte e lasci di sé un ricordo buono, rovinato solo un po’ al margine. Vorrebbe dire a Camilla che non si può stare davvero bene se le persone a cui tieni non stanno bene. Vorrebbe dire tanto, ma dalla bocca gli spunta solo un modesto: “Peccato..
Però Camilla certe cose pare comprenderle lo stesso. Forse si leggono negli occhi di Apollonio, nei suoi gesti sinceramente rassegnati, nella plateale distanza tra l’Apollonio che stava facendo di tutto per conquistarla e l’omonimo tizio che un paio d’ore più tardi decideva improvvisamente di interrompere il loro idillio. Allora le viene un sorriso istintivo, da’ un ultimo sorso al bicchiere prima di buttarlo, e poggia la mano sinistra sulla guancia di Apollonio: “Vai a sostenere un amico che non c’è, e lasci una ragazza che oramai ci stava..
Apo non la fa continuare a parlare: “A voler capire troppo si perde il senso della realtà, cara, ed io temo soprattutto il giorno in cui non saprò cosa fare. Il resto dipende dalla sorte, se vorrà ci ritroveremo.

Quindi le diede un bacio poco sotto lo zigomo, si voltò per avviarsi alla macchina e la lasciò lì da sola, sedotta e abbandonata. Come questa storia.

lunedì 29 novembre 2010

Et in terra pax

Era giunta l'ora di dirsi addio. Seduti allo scalone di quella chiesa con tante colonne, che guardava assopita le nostre nuche cadenti. Teste basse, come due penitenti. In attesa di giudizio. Il nostro.
E ora come farò? Come farò senza le tue sorprese? Come farò senza le tue richieste e le tue esigenze? Chiedevo io. Sapendo che non mi era dovuta alcuna risposta, né tanto meno alcun compatimento. Ma quello non era tempo di domande, di rimpianti, di preghiere o quant'altro. Era solo tempo di godere del poco tempo che restava.
E vidi passarmi davanti tutte le immagini di ciò che avevo vissuto e di ciò che avrei potuto. Sorrisi allora, e senza scegliere un'immagine ben precisa pensai all'origine, al prima, a quando tutto doveva iniziare e tutto doveva ancora essere.
E mi ricordai di paure, speranze, dubbi e progetti. Mi ricordai che sognare la vita spesso è meglio che viverla. Mi ricordai di ieri notte.
Ero sempre qui, e salutavo la fine di una giornata. Proprio come sto facendo ora. Benvenuta notte. Addio oggi.

martedì 16 novembre 2010

Meta-sogno

Una notte ho fatto un sogno. Non ne ricordo precisamente tutti i passaggi, ma sono sicuro che c'era lei, il mio desiderio ricorrente. E rincorrente. Riciclando sinteticamente un versetto evangelico spesso si usa dire: "chi mi ama, mi segua". Ecco, anch'io avrei voluto solo seguirlo l'amore, ma lui è sempre scappato più veloce. Allora son stato costretto a inseguirlo, a rincorrerlo quasi. Non l'ho mai pedinato però, giuro.

Ma torniamo al sogno. Nuotavamo. Io nuotavo...era per forza un sogno.
Le dissi: "Ehi, non ho molta resistenza in acqua. Ricordi?"
Rispose: "Certo che me lo ricordo," - prima di aggiungere con voce sommessa, ma neanche troppo - "è per questo che siam venuti.."
Ma mi amava in fondo, e non solo in fondo al mare. Lo intuivo anche dal suo profondo ed indistruttibile silenzio quando le chiesi: "Dolores, ti andrebbe di stare con me? Stasera? Domani? Quando vuoi!"
"Facciamo dopodomani, forse..", sillabò lei, poggiata di schiena ad un bancone da bar che fiancheggiava una delle due sponde del torrente in cui nuotavamo. (E' un sogno, e c'è un bar in un fiume. Non rompete i maroni!)

Poi mi domandò con quell'aria stronza di chi ha già la risposta a ciò che sta chiedendo: "Ah Genio, ma non è che per caso sei stato tu a mandarmi quella lettera anonima e inutilmente sdolcinata che mi ha fatto tanto girare i coglioni?"
Rovinato come un portiere che, oltre ad aver scelto il lato sbagliato su cui gettarsi, s'è appena accorto d'essersi buttato su una merda, io farfugliai una frase del tipo: "Assolutamente no, Dolores! Mi piaci, certo, ma non fino a questo punto..", senza rendermi minimamente conto di cosa cazzo volesse significare.
Ma non restai neanche troppo a pensarci. Perché non feci in tempo a rammaricarmi di quanto detto, che lei mi  stampò sulle labbra un bacio di una tale compostezza geometrica, che pareva parte integrante di una grande scenografia allestita dalla Repubblica popolare cinese.

Un bacio istintivo, solo all'apparenza freddo e disinteressato. Dolores lo sentiva sotto la pelle, pervasa com'era da una tristezza che solo per il troppo orgoglio non si trasformò in pianto. Un malessere interno che le chiese appunto di regalarmi, così dal nulla, quell'indimenticabile bacio.
Una fugace impronta di sé per un momento di ineffabile emozione. Per lasciarmi provare ciò che sarò destinato a perdermi per il resto della vita. Per farmi sentire di nuovo in debito con lei. E per acquisire una consapevolezza:

che Dolores non mi amava. Ma lo faceva in maniera sublime.


giovedì 21 ottobre 2010

Reportaggi - "Il niente"

Una volta mio padre mi disse: "qua a Fogg' n'g st'c nint!..". Un'altra volta mio zio accennò: "vattinn', che a Fogg' n'g st'c nint!..". Poi fu la volta di un mio amico, che rivelò: "cosa pensi possa darti questa città?! Sint a me: scappa. A Fogg' n'g st'c nint!..".
Insomma tutti, come avrete facilmente compreso, insistevano sul solito dato, poco statistico e molto pratico, che a Foggia vi sia ben poco, per usare un eufemismo. Un leit-motiv per altro da sempre sottofondo di circa il 90 percento dei discorsi dei miei concittadini, i quali attribuiscono a quest'atavica e inqualificabile carenza (appunto "n'g st'c nint!..") la causa prima e ultima di tutti i loro problemi: dai soldi che sono sempre pochi, ai disguidi familiari, passando per un'eccessiva fila nella sala d'attesa del medico, e finendo con quella pizza un po' bruciacchiata mangiata in un locale che tanti avevano lodato. I soliti drammi esistenziali, diciamo.
Tralascio poi per amor del breve, e per non sperdermi nelle lande desolate del superficiale e dell'irrazionale, tutta la riflessione sul paradigma "n'g st'c nint" quand'è applicato al calcio. E in particolare alle prestazioni del tanto bistrattato Us Foggia, squadra locale dai colori rosso-neri, famosa per avere uno stuolo di sedicenti tifosi che riescono a pontificare della totale assenza di schemi tattici, della malvagia caratura tecnica dei giocatori della rosa, e della scarsa attitudine all'impegno degli stessi dopo neanche tre minuti del primo tempo della prima partita di campionato. Al grido naturalmente di: "quist'ann n'g st'c nint!..".
Generazioni di filosofi, antropologi, studiosi della psiche e pensatori vari hanno speso anni ed energie preziose per tentare di capire cosa diavolo possa mai figurarsi in quel "nint" così tanto evocato dalle insaziabili anime di questa mia città. Ma non c'è stato nulla da fare. Anzi, mo 'u fatt (ossia, "casca a pennello"): "n'g è st't nint da fa'!"
Malelingue minoritarie tendono semplicisticamente ad identificare, in quest'ormai abusata perifrasi foggiana, uno sforzo di tensione verso una delle forme più espressive della cosiddetta "arte del lamento". Un'ipotesi che obiettivamente non mi sentirei di escludere a priori. Ma allo stesso modo sarebbe errato ritenere del tutto irrilevante il potenziale principio metafisico sotteso al concetto di "nint". Qualcosa in cui comunque non intendo per ora imbattermi, non avendo le capacità adatte. E neanche il tempo, sinceramente.
Ma spero in fin dei conti di aver mosso in voi, foggiani e non, filosofi e non, lamentosi e non, un piccolo sussulto di curiosità tale da produrre qualche domanda in più sulla reale essenza di questo piccolo grande mondo chiamato "nint". Alla prossima.


lunedì 11 ottobre 2010

Gocce di poesia foggiane - Atto IV





FRENA E FRANA


Chiov'.
Sott a stu ci'l nir'
ascenn'n i p'nzir,
anzim' a st'acqua lord che n'n serv a na lir.

Angòr chiov'.
Da sti nuv'l strachien'
d nirv e d velen',
che serv'n p fa appr'zzà 'u seren'.

Madonn', chiov'!
Sta piogg' che t'abbagn
è semp 'a stessa lagn,
e 'u timp pes quant 'e na lasagn.

Appost, chiov'.
Ma mo' tu t'e scaff't int 'a capocc'!..
P'cchè non t vij' a mett sott 'a docc'?!
Almen' là t puj' ammuccià sti gocc',
che tin d'int all'ucchij' e sop 'a facc'.
E' inut'l che tint d fa 'a rocc'.

Lass che chiov', e n'g rompenn 'u cazz.



sabato 9 ottobre 2010

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo II (parte 1a)

 - SEDOTTA E ABBANDONATA - 
(parte prima)


Succede una sera.
Succede che per Apollonio è un magnifico martedì sera, tiepido come una di quelle vecchie serate di fine agosto; che sono poi passate a rappresentare la settembrina presa di coscienza della fine dell’estate; e che negli ultimi anni si sono addirittura catapultate nel bel mezzo del mese di ottobre, prendendo a scalciar via l’autunno come neanche si farebbe col più ignobile mariuolo trovato in casa propria a rovistare tra l’argenteria. Cacciato come un ladro da casa sua: triste vicenda quella dell’autunno, ennesima vittima dello sciacallaggio; che è il vero fattore dominante di quest’epoca in cui, al primo segnale di debolezza dato, ci si ritrova ad essere assaliti e poi sbattuti su un marciapiede a leccarsi le ferite.
Ma dicevamo della serata di Apollonio. E’ sempre martedì, l’aria è sempre fantasticamente tiepida, e tutto attorno il mondo gira semplice e divertente, proprio come piace a lui. Girano cocktail, si ride, si pensa a non pensare, e in questo festival di maschere apparentemente rilassate Apollonio fa davvero la parte del leone. Ed il leone è l’unico che può tenere testa agli sciacalli, a meno che essi non siano davvero tanti e che il leone non sia davvero solo; quindi come vedete tutto torna.
Per questa gente Apollonio è una sorta di effetto placebo. Le sue sono punture di demenziale allegria che non servono a un cazzo, che non rilasciano nulla, se non un superfluo senso di temporanea eccitazione. E lui, Apo, sa di essere la finta cura a un ignoto malessere, sa che per gli altri esiste soprattutto in funzione di quel momento, ma non se ne preoccupa. Ognuno nel mondo dovrebbe avere un ruolo, e il suo è di divertire. Assistere quotidianamente alla fenomenologia della risata sui volti delle persone: occhi che si spalancano; zigomi che prendono vita; e labbra che iniziano a schiudersi proprio come l’arco che si appronta a scagliare la freccia. Così parte la risata, come una freccia. Perciò non si dovrebbe mai ridere ad altezza d’uomo; né davanti, né di dietro. Qualcuno potrebbe farsi male. Fatto sta che, dopo lo sforzo comico, è Apollonio a essere tranquillo. Veder montare il sorriso sul viso altrui è il suo effetto placebo. “Sono ancora vivo”, pensa.
E quella serata? Continuo a metterla da parte e a riprenderla, a mio piacimento, senza alcun riguardo, come si fa con quelle persone che si crede di possedere e di cui si sfrutta cinicamente la vicinanza. Forse non lo faccio di proposito, ma lo faccio. E tanto basta per capire che sto sbagliando, e che volontarietà e involontarietà sono soprattutto accessori buoni su cui fare affidamento al momento della condanna. Ma non prima. Prima c’è che ho sbagliato. Punto.
Allora torniamo alla serata, al divertimento, e ad Apollonio che ha un altro motivo per stare bene. Questo motivo si chiama Camilla: capelli neri, equamente divisi ai due lati della faccia, che scendono fino alla fine del collo; zigomi corposi, ma eleganti; labbra sottili; e un metro e ottantacinque centimetri di vitalità distribuiti su un fisico che si può definire giusto. Carina questa Camilla, e anche simpatica. Spensierata. Ad Apo piace tanto. Quella sera decide che è proprio giunto il momento di provare a conoscerla meglio, qualsiasi siano le coniugazioni possibili di questo verbo. I due bevono insieme, chiacchierano, scherzano con tutte quelle cazzate primarie che sono gli unici tram che possono portare due conoscenti, semi-sconosciuti, dalla periferia dei rapporti di circostanza al centro di una relazione più importante. Un percorso obbligato, insomma. A meno che i due non siano Charlize Theron e Johnny Depp.
Infatti non sono loro, ma soltanto due stronzi qualunque che hanno deciso di giocare a scambiarsi delle sensazioni. E poiché si parte solo quando in macchina ci sono tutti, in questi casi iniziare vuol dire fare già metà del viaggio; l’altra metà poi servirà a capire dove si può arrivare. Ma da qualche parte sicuro si arriva.
Sempre però che non sorgano intoppi inaspettati. E dov’è Lepido?...

(continua..)

giovedì 7 ottobre 2010

Reportaggi - "I portoni"

Si esce per Foggia. Si esce con la consapevolezza che tutto non è, ma tutto può essere. Il portone dietro si chiude, e davanti a te si spalanca una città che è un mistero.
Aspettate però, torniamo un attimo indietro. Perché io Foggia la conosco, e allora devo controllare una cosa: ma il portone si è chiuso per bene? Come non detto: non s'è chiuso un cazzo. Ecco il male, anzi uno dei mali incurabili di questa città: i portoni. Com'è quel proverbio, "si chiude una porta e si apre un portone"? Beh se siete a Foggia dimenticatelo, ché tanto i portoni sono già tutti belli che spalancati; anzi, diciamo solo spalancati.
Mi emoziono spesso a leggere quegli avvisi disperati con su scritto: "SI PREGA GENTILMENTE DI CHIUDERE IL PORTONE". Efess', è 'na parol'!..(per chi legge da Oltretavoliere equivale a: "Eh, facile a dirsi!") ..Mi viene quasi da piangere pensando alla buona fede del pover'uomo autore della scritta, ma mi viene anche da pensare che forse avrebbe fatto prima a chiedere, con la sua proverbiale gentilezza, di chiudere il mondo fuori.
Chiudete il mondo, per piacere! Coi portoni c'abbiamo provato, ma niente da fare.
Portoni che ti scattano dalle mani per chiudersi a saetta, neanche se le molle che li regolano fossero state costruite da Robin Hood in persona. Sono quelli che vediamo perennemente aperti, tenuti fermi con mezzi di fortuna. E di fortuna ne serve davvero tanta, perché se il portone scappa poi sono cazzi: si chiude con la stessa velocità con cui si chiudono le indagini su Berlusconi, e scoppia un boato da bombardamento della seconda guerra mondiale che lo sentono fino a Napoli e pensano che il Vesuvio si sta risvegliando.
Opposti a questi ultimi, ci sono i cosiddetti portoni "al rallenty": sono sempre sul punto di chiudersi, ma quel punto purtroppo non lo oltrepassano mai. Sono i portoni del domani, prima o poi si chiuderanno. Mentre tu sei ancora lì che aspetti, pensando: oh, mò facim' nott'!..(per chi chiama da fuori Foggia sarebbe: "su muoviamoci, che la vita deve andare avanti!")
Intanto la notte arriva davvero. E ti coglie svagato e fesso, perché tu sei rimasto lì avendo seguito i dettami di una scritta che recita: "SI PREGA GENTILMENTE DI ACCOMPAGNARE IL PORTONE". Hai pensato che se qualcuno s'era addirittura premurato di scriverlo, forse quel portone aveva davvero bisogno di un accompagnamento. Chissà di quale grave malattia soffrirà? Forse è tanto solo, tanto vecchio e tanto stanco? Finché non arriva un signore indistinto a dirti: "Babbiò, so tre or' che sti annanz a stu purton': che è fa, t'è luà da nanz' che st'c na fil' d gent' che adda passà?!"..(chi parla un altro italiano direbbe più o meno: "Stranissimo individuo, potrebbe andare a fare qualcosa di utile per la società piuttosto che stare a occupare l'ingresso di questo palazzo?!").. Deriso e sconsolato ti allontani. Pensavi di fare una cosa carina. Maledetti portoni, la prossima volta col cazzo che vi accompagno, pensi.
Rotti, coi vetri infranti, le maniglie mancanti, neanche si chiudono: ecco i portoni della mia città. Inutili, come tanto altro. Alla prossima.

venerdì 1 ottobre 2010

Il paese che ho in ventre


Il mio paese è un paese dove puoi dire che i cittadini della capitale sono dei "porci". E senza scherzare. Ma chi ti sta accanto crede che quella sulla tua faccia sia una smorfia divertita. Invece sono i segni dell'ictus. Poi i cittadini della capitale s'incazzano, e tu rispondi "Ohh, tanto casino per una semplice battuta!?", e indichi a tutti di vedere la risatella che sfugge dal tuo volto. Insomma alla fine t'ha salvato un ictus: che culo!

Il mio paese è un paese dove un parlamentare dice al capo del governo che è uno "stupratore della democrazia", mentre il capo del governo appella il parlamentare come "pazzo". Ora, se dovessi seguire la legge di vita del bipolarismo, direi che delle due frasi una è vera, e l'altra no. Fatto è che in entrambi i casi sarei molto preoccupato. E non posso neanche pensare che siano tutte e due tesi da scartare, perché altrimenti potrebbero anche essere tutte e due vere....oh cazzo!

Il mio paese è un paese dove si attacca ferocemente chi associa il mio paese al luogo comune della mafia. Però se vieni condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, allora no: nel mio paese non ti dice nulla nessuno. Perché la mafia farà male, ma fanno ancor più male i luoghi comuni..

Il mio paese è un paese dove i principali uomini del principale partito di sinistra esultavano per aver acquistato delle banche. La famiglia del capo della destra è partecipe dei consigli d'amministrazione di molte banche. Il partito leganordista-secessionista-antimeridionalista-pallista parla anch'esso ogni giorno delle banche. Però un povero stronzo per avere un prestito o aprire un mutuo deve rivolgersi direttamente al padreterno, che è notoriamente sprovvisto di amicizie nel gotha della finanza..

Il mio paese è un paese dove la gente si lamenta. Si lamenta perché ci sono troppi ricchi, troppi poveri, troppi stranieri, troppi musulmani, troppi rumeni, troppi romani, troppi razzisti, troppi poliziotti, troppi ladri, troppi ultras, troppi gay, troppi impicci, troppi inciuci, troppi laici e troppi preti. Però questa gente spende, fa i debiti, sfrutta, denigra, si appropria indebitamente, picchia i propri parenti, violenta le proprie donne, accoltella i rivali, paga tangenti, chiede favori, sputa bestemmie e sevizia minori. Odia i politici e vota.

Il mio paese è un paese dove la gente si lamenta di se stessa. E anch'io.


giovedì 23 settembre 2010

Gocce di poesia - Atto III


CANTO PER GLI IRREQUIETI


Girare pagina, ancora una volta.
Fino a logorarsi i polpastrelli.
Fino a sgualcire gli angoli del foglio.
Questo capitolo è stato un po' spento.
Trama banale in un contesto favoloso,
ma senza vita.
Non resti a pensarci e vai avanti.
Per nuovi scenari e nuovi problemi,
nuove accuse e nuovi patimenti.
Ripensamenti di ripensamenti.
Arrivederci.


E la strada del ritorno,
tradita e permalosa,
dirà che l'hai trattata da puttana.
Meriterebbe scuse, ma non ora.
Ora bisogna solo concentrarsi:
attendere del libro i nuovi passi,
sperando che non siano passi falsi.
Poi andare, correre e fuggire,
come la fuga mia da quel cliché:
non sono io che cambio prospettiva;
sono le prospettive che cambiano me.

martedì 21 settembre 2010

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo I

Capitolo I

 - PERSONAGGI RIFLESSI - 


Apollonio è un ragazzo riflessivo e sereno. Forse con un carattere troppo docile, ma mai rinunciatario. Certo è accondiscendente, ed è spesso lui ad adeguarsi ai voleri di Lepido. Però lo rispettano tutti, Lepido in primis, proprio per questa sua dignitosa timidezza, che riesce a esprimere con grandi dosi di comicità semplice e travolgente, ma mai banale e volgare.
Apollonio è un'abile maschera di sé stesso, e mette la sua simpatia davanti a tutto perché con questa può proteggere le sue emozioni e i suoi pensieri, che spesso prendono la via di una battuta stupida, lanciata in un discorso come la carta gettata da chi comincia il giro di una partita di “scopone scientifico”: all'inizio, sola soletta sul tavolo, quella carta non vale niente; ma il gioco ruota attorno a lei e a come si adegueranno gli altri alla sua presenza.
Risvolto purtroppo irrinunciabile di questo carattere è l'esser presi poco sul serio. Apollonio è così tanto naturale nella sua figura di spassoso affabulatore, che a nessuno viene mai in mente di guardare oltre la maschera che porta, per paura di scoprire lati spiacevoli che ne esaudirebbero l'immagine pura e serena, o per timore di trovarsi davanti a delle inaspettate qualità che sarebbero poi difficili da ignorare.
Lepido, che per Apollonio è Lepo, è invece tutt'altro. Ironico e sarcastico piuttosto che simpatico, fondamentalmente buono, è ragazzo di forte personalità.
Più intelligente di Apollonio, che lui chiama Apo, più attento e svelto a capire i diversi modi con cui poter raggiungere un determinato risultato, è ammirato dall’amico per questa pervicace ambizione nonostante si ritrovi spesso ad affrontare rotture traumatiche nelle faccende che lo riguardano, a causa soprattutto delle sue miserevoli scorte di pazienza. Soffre inoltre dell’odioso vizio di voler lasciare dappertutto il segno della sua presenza. Un bonario egoismo che sfocia però in eccessi di tensione nervosa quando il mondo non gira come lui vorrebbe, e che lo trascina spesso a cedere il passo all'istinto, quasi che tutte le questioni della vita si riducessero ad un cerotto da tirar via con più o meno decisione e freddezza per sentire meno dolore.
Purtroppo per lui, però, la vita non è un cerotto da strappare. Il dolore, si sa, non nasce da un episodio in sé, bensì dalla sua percezione emotiva, dalla presa di coscienza (o più spesso di incoscienza) di una crisi e poi di un vuoto apparentemente incolmabile. Tutta la tristezza è legata ad una mancanza. E quando manca qualcosa ci si sente smarriti. Il senso di smarrimento è micidiale: ti prende quando meno te l’aspetti e ti spinge lontano da quello che ti circonda; e solo tu, in mezzo a un mondo disgraziato pieno di luci false e suoni violenti, riesci a sentire questa distanza atroce tra ciò che vivi e ciò che vorresti vivere.
A quel punto tu, proprio come Lepido, hai bisogno del tuo Apollonio. E beato chi ce l’ha, aggiungo io, uno come Apollonio. Uno specchio ad effetto distorsivo, che riflette la nostra realtà in una nuova immagine, riportando alla luce piccole bellezze nascoste e distogliendoci per un momento dalla contemplazione del buio assiepatosi sulla nostra materia grigia.
E tutto sembra meno importante. Ma solo per un momento, purtroppo. Vedete, la distrazione è come un deodorante spray: ora più, ora meno, ha comunque un effetto limitato nel tempo. E non puoi continuare all’infinito a sommergere con alcool profumato i pensieri maleodoranti, perché poi la puzza torna ad avere il sopravvento, e una mattina fai una bella figura di merda pensando di essere uscito di casa decentemente profumato, mentre invece puzzi come un fiore marcio. Allora devi lavarti, e basta. Sperando che l’acqua non diventi di colpo gelida o bollente. Insomma l’avete capita la metafora, è inutile continuare. Cazzo però quanto mi piacciono le metafore..
..Ma torniamo ad Apollonio, a Lepido e allo smarrimento. Al senso di vuoto.  A quel buco nel centro del petto che risucchia ogni energia dalla testa ai piedi. Al cervello che gira a vuoto, bloccato sui sensi di colpa, sulle paure, sui rimorsi, sui chissà se, sui vorrei, sui però, sui non so. Tutto fermo: dolori in corso.
Ecco l'impotenza: il vero male di questo ventennio. Magari le dedicherò un capitolo tutto suo. O forse no. Per ora basta una poesiola.


Occhi scavati dal senso di colpa,
labbra essiccate,
parole a metà.
Ti troverò dove il tempo non conta,
dietro i rimorsi,
o persino più in là.
Misero come una magra raccolta,
terra su cui
mai la pioggia cadrà.
Attendi un cenno, un sorriso, una svolta,
ma sembra morta
ormai questa città.
L'hai uccisa tu con i tuoi calci in bocca,
mentre chiedevi già "scusa",
e "pietà".

lunedì 6 settembre 2010

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - premessa

PREMESSA





Apollonio e Lepido erano amici per la pelle. Ma che dico per la pelle, erano proprio amici per le palle! Virilmente intese come simbolo di coraggio e partecipazione. Ognuno sapeva tutto dell'altro. Dividevano tra loro risate, gioie, dolori, litigi, incomprensioni. Tranne che per le questioni d’amore, facevano tutto insieme, anche se avevano caratteri decisamente diversi. Difatti ogni volta l’uno doveva assecondare ciò che aveva deciso di fare l'altro. Errori compresi. Ma l'amicizia in fondo è questo.
Fino al fattaccio potevano essere considerati una sola persona. Due corpi diversi che per qualche alchimia indecifrabile si ritrovavano a vivere come un’unica entità. Una sorta di esperienza umana bipartisan. Tante difficoltà vissute assieme, la convinzione che l’unione fosse la vera forza, come dice  il proverbio, e il desiderio di raggiungere la felicità con quel che s’aveva a disposizione.
Ognuno tentava di prendere solo il meglio dell’altro. E non si trattava di stupida emulazione, bensì di un sincero rapporto di simbiosi. Il vero tradimento sarebbe stato scimmiottare il comportamento superficiale degli altri ragazzi, derisi e giudicati come specie a cui madre natura aveva giocato un brutto scherzo. L’adesione ai comportamenti più comuni sarebbe stata dunque tacciata di infamia, come si fa in un’associazione mafiosa. Ed esattamente come in tutte le storie di mafia, anche nella nostra storia c’è un finale tragico.
Ma il finale non nasce da sé, così all'improvviso, come un rutto. E' l'ultima tappa di un percorso. Arriviamoci con calma. Il tempo non ci manca..


Quando saremo al tempo delle ciliegie
usignolo e merlo faranno festa.
Le belle avranno la follia in testa
e gli innamorati il sole nel cuore.
Però è così corto il tempo delle ciliegie
dove si va insieme a cogliere sognanti
come orecchini..
ciliegie d'amore uguali ai vestiti
che cadono sulle foglie come gocce di sangue.
Quando sarete al tempo delle ciliegie
se temete le pene d'amore evitate le belle.
Io che non temo le crudeli pene
non evito di vivere per evitare di soffrire.
Amerò sempre il tempo delle ciliegie.
E' da allora che porto nel cuore una piaga aperta,
e dama fortuna che tanto mi ha offerto
non ha mai potuto calmare il dolore.
Amerò sempre il tempo delle ciliegie
ed il ricordo che porto nel cuore.

(Jean-Baptiste Clément)

giovedì 26 agosto 2010

Sorte e coraggio





Allora prende il telefono e inizia a scorrere la rubrica. A...B...ecco la C. Salta un altro paio di numeri, poi arriva su quello che stava cercando e fa partire la chiamata.
Squillo. Altro squillo. Terzo squillo. Quarto squillo. La pazienza che inizia a sgomitare per andare via...e poi ad un tratto: "Pronto, chi è?"

Risposta, segnale di vita che desta dal torpore e dona irresistibili afflati di speranza. Nulla è del tutto compromesso. E lui, stimolato nell'orgoglio da questa nuova possibilità di riscossa, attacca a parlare come la voce registrata del servizio clienti:
"Claudia, quanto siamo stati insieme, tre mesi? Ecco, in questi tre mesi la mia vita è cambiata! Sono diventato un altro, mi sento brillante, speciale, sereno, quasi invincibile.."
La voce dall'altra parte cerca di interrompere il discorso con poche sillabe: "Antonio senti.."

Ma non c'è niente da fare, Antonio non sente. Tutti i suoi sensi sono occupati unicamente a far confluire da un cellulare all'altro, attraverso un flusso sconnesso di parole che volano grazie a un ripetitore, quella poltiglia di convinzioni, dubbi e speranze che gli frullano dalla testa allo stomaco: "..Dentro di me è tornata quella fiducia che credevo d'aver perso definitivamente. Ho una forza strana che mi vibra nei muscoli e nei tendini, che mi pulsa nelle vene come se avessi fatto una trasfusione di sangue pulito.."
Intanto l'altro telefono ripropone lo stesso messaggio: "Antonio senti...Antò.."

Parole a un muro. La voce di Antonio si è quasi impennata di tono per il rush finale: "Claudia, ascoltami: io adesso sono una persona migliore. E posso amarti ancor più di quanto non abbia fatto in questi mesi. Sei stata sorpresa dalla mia presenza come dalla più inaspettata delle novità, ti capisco. Ed hai avuto bisogno di una pausa per rimettere le idee a posto. Ma non possiamo gettare a mare il nostro rapporto già adesso! Senza averci provato seriamente. Senza aver speso un decimo di tutto il sentimento che ci lega. Senza.."
Adesso l'interruzione è forte e decisa: "..Senza che continui a dire puttanate, per favore Antonio ascoltami: io sono Peppe, il fratello di Claudia. E Claudia non c'è: è uscita con un tizio e ha lasciato il cellulare a casa perché sapevi che l'avresti chiamata. Non ti vuole sentire per un po', ha detto.."

Silenzio. Sospiro, quasi un sollievo. Antonio sbotta: "..Grande Peppe, non sai quanto sono contento!...Cazzo che fortuna! Se tua sorella avesse sentito questo mare di puttanate, stavolta davvero m'avrebbe mandato a cagare per sempre.. Ehi mi raccomando non le dire ciò che hai sentito. Non le dire che ho chiamato. Non le dire una parola. Niente!...Peppe, hai capito?!"
Peppe non capisce, ma si adegua: "Ok Antò, comunque sei un pazzo. Hai rischiato tanto se è vero, come hai detto, che a mia sorella non sarebbero piaciute quelle parole.."

E Antonio, lapidario: "Siamo tutti pazzi, Peppe. Solo che un pazzo sfortunato è un folle. Un pazzo fortunato, invece, è un coraggioso".
Quindi chiude la chiamata e si mette seduto, immobile, a non pensare. I suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue emozioni, tutto resta sospeso in aria proprio come il filo su cui tenta di camminare l'equilibrista. Folle o coraggioso che sia, aspettando il verdetto della sorte.

martedì 24 agosto 2010

Gocce di poesia foggiane - Atto III

NON SI MUOVE UNA FOGLIA


Mo c' vuless nu scaff,
puj' dic' pur' sgarzalon'.
Nu bell segn' sop 'a facc',
n'abbronzatur' fatt a m'n.

T'u mer'tass bbun 'u scaff,
'rrét 'a sta scuffij' d capill.
E se n'n vid partì 'u vrazz,
è semb 'u mj', puj' sta tranguill.

Tu vj' cercann' schitt scaff,
t pij'c a fà 'a provocazion'.
P te s' ponn perd i staff,
po' abbusch' e avasc 'u capacchion'.

Mè fatt dà stu bell scaff,
'ccussì f'nim sta poesiol'.
E n'n r'denn sott 'i baff:
so' scaff pur' sti parol'!

lunedì 2 agosto 2010

Tutto in pochi minuti

Preso per capelli, e sbattuto di testa contro il muro. Sanguinante, grondava piastrine, e attorno la gente fissava il tutto con la calma tipica di chi pensa che la vita sia uno stupido film, e che ci sarebbe stato di lì a poco lo scioglimento dell'intreccio con relativo lieto fine. Invece non si scioglieva niente, se non l'instabile capigliatura del sanguinante, con tutti i ricci attorcigliati tra le dita di quella mano violenta che lo stava uccidendo.

E la testa continuava a sbattere, il sangue continuava a schizzare, la gente continuava a fissare, ed io continuavo a non capire. Si, perché c'ero anch'io: ma dov'ero? Non ricordo. Ma, mentre scrivo, noto che le mano destra è sporca di un colore rossastro. Poi salgo con lo sguardo verso il braccio, scruto le maniche e la spalla, e mi accorgo che anche il resto della maglia è condito da chiazze rosse. E ora ste chiazze del cazzo da dove escono!?

Quell'uomo intanto stava per morire. La testa continuava a infrangersi contro i calcinacci di un muro fragile come una fetta biscottata, i capelli erano di un rosso in tinta unita, il malcapitato neppure si lamentava più. E anche io avevo smesso di parlare. Ancora non ricordo dove fossi, ma due erano le certezze a questo punto: ero in qualche luogo, muto e sporco di sangue.

Quindi cala l'impeto di violenza della mano, l'uomo barcolla, il sangue copre ogni tratto riconoscibile del viso, la testa ciondola passivamente, il corpo è in attesa di una folata di vento che l'aiuti a stendersi una volta per tutte su quel pezzo di mondo. Ed ecco il soffio tanto atteso: un leggero passo indietro, la schiena che va a terra per prima, poi la nuca, le gambe per ultime. Ma non appena il capo sbatté sul selciato, un istintivo ritorno dei sensi scosse l'uomo, che intravide, con quel poco di vista che gli era rimasta, la sua mano destra completamente decorata di sangue frammisto a ciocche di capelli. I suoi capelli. Il suo sangue. Sulla mano che aveva deciso di ammazzarlo. La sua mano.

E l'ultimo barlume di lucidità fu una veloce presa di coscienza, come il riconoscimento del corpo che si fa all'obitorio. Lui, il carnefice, riconosceva sé stesso nella vittima. Fu allora che capii dov'ero. Ero riverso a terra, la mano destra e la testa sanguinanti, in attesa di perdere i sensi. Mentre la mano sinistra scriveva le sue ultime parole: per sempre.

mercoledì 21 luglio 2010

Rivoluzioni di piazza, rivoluzioni di terrazza

Morte alla pioggia.
Morte al cielo, che caga piccole palline di grandine pesanti come delle polpette di pietra. E mi spacca le piante, e mi spacca le tende, e mi spacca i maroni.
Morte alle nuvole colme di pioggia, che pare quasi seguano l'andamento dei miei malumori. E non arrivano mai quando sono felice, sovrappensiero, sereno, e potrei sbattermene di uno scroscio d'acqua grigia. No, arrivano quando ho la vita appesa; quando conto i giramenti...dei miei pensieri; quando la pesantezza ce l'ho già in testa e gradirei non vederla riprodotta nei segni di madre natura.
Morte al rumore maledetto e incessante delle gocce d'acqua, antipatiche sorelle forti del dono dell'inopportunità. La vostra guerriglia è un continuo lanciarsi contro le strutture costruite dall'uomo, barriere artificialmente poste dagli esseri umani per fingersi padroni di un mondo che in realtà può solo inchinarsi alla superiorità delle forze preesistenti della natura.
Morte al vento, che anticipa la storia e da' il segnale di battaglia con il suo soffio che si diffonde intimidatorio in ogni minimo spazio gli sia concesso.
Morte alle sponde, create dall'uomo per esercitare il potere primario della costruzione, e piegate alla forza dirompente dell'acqua che le seduce e le sfrutta per arrivare dove in realtà da sola non sarebbe mai arrivata. E scopri che il riparo non esiste, esiste l'illusione del riparo, la rappresentazione, ma ci sarà sempre qualcosa che si bagnerà.
Morte ai buchi, che facilitano l'acqua. Piccole spie, traditori del sistema di difesa, pezzi di mondo che si son venduti alla natura come prostitute di un mondo materiale ormai privo di sani principi.
Morte a me, che mi trovo sotto a tutto questo. Colpevole di aver osato tanto, di aver sfidato la rabbia del cielo che tutto guarda, qualcosa sopporta, e qualcuno punisce.
Perché serve sempre un capro espiatorio. Proprio come accade in tutte le rivoluzioni di piazza. Solo che stavolta si trattava di una terrazza, quella di casa mia..