venerdì 13 novembre 2015

L'Italia, il Belgio e quell'isola di dolore


Oggi, 13 novembre 2015, l'Italia sfida il Belgio.
Sedici anni fa, il 13 novembre 1999, l'Italia sfidava il Belgio.

Me lo ricordo perché ero a casa dei miei nonni paterni, anche se mio nonno era purtroppo andato via da qualche mese; naturalmente insieme a mio padre, naturalmente incollato alla tv a vedere la partita, naturalmente bramoso di minuti di calcio da guardare avidamente, com'ero allora e come in fondo sarei ancora adesso, se non ci fosse una partita al giorno.

Me lo ricordo perché si giocava allo stadio Via del Mare di Lecce.
Me lo ricordo perché giocavamo contro coloro i quali, di lì a pochi mesi, avrebbero ospitato in coabitazione con l'Olanda quell'Europeo che avrebbe reso celebri, tra le altre cose, le mani di Toldo e il culo della Francia.
Me lo ricordo perché Paolo Vanoli, terzino sinistro dalla carriera meno redditizia di quanto avrebbe meritato, arrivato al grande calcio solo nel 1998 grazie al Parma di Malesani che lo acquistò dal Verona in tempo per fargli vincere una Coppa Uefa con tanto di gol in finale, andò in rete quella sera di novembre a Lecce con un bolide di sinistro che sbatté sotto la traversa prima di finire alle spalle del portiere Gaspercic.
Me lo ricordo perché io di partite del Belgio ne ricordo abbastanza; attitudine figlia probabilmente di una certa simpatia dai tratti istintivi iniziata ad Usa '94 grazie a quel formidabile numero uno che era Michel Preud'homme, e coltivata attraverso le immagini di un altro grande portiere belga, l'adorabile buffone Jean Marie Pfaff.
Me lo ricordo perché mi è sempre piaciuta la maglia rosso acceso della Nazionale del Belgio, e il loro soprannome, i diavoli rossi, che ben si sposava con il marchio fondativo della mia squadra, il Foggia.
Me lo ricordo perché perdemmo 3-1 in casa, andando di nuovo sotto, dopo il momentaneo pareggio di Vanoli, prima con il vecchio attaccante Wilmots e poi con Goor.
E me lo ricordo perché due giorni prima soltanto, a qualche centinaio di metri da casa dei miei nonni, che hanno sempre abitato all'ultimo dei cosiddetti "quatt palazz", quartetto di edifici popolari tirati su in Via Lucera, quasi estremo avamposto residenziale prima della campagna, proprio lì vicino insomma, in Viale Giotto 120, era crollato un palazzo. Grande: 26 appartamenti, 71 residenti. Ne morirono 67.
Me lo ricordo perché il palazzone si era accartocciato e sbriciolato, mentre restava sorprendentemente e fortunatamente piedi l'adiacente edificio gemello, eroso dalle sue stesse fondamenta.
Me lo ricordo perché mentre raggiungevamo casa dei miei nonni, a piedi perché le vie della zona della tragedia erano ovviamente chiuse al traffico, mio padre ed io passammo proprio di fronte a quel cumulo di macerie attorniato da vigili del fuoco, giornalisti e gente spaesata; la polvere esplosa da quell'ammasso di finto cemento (ma questo l'avrei saputo soltanto dopo) disegnava l'aria di un colore che direi grigio, ma che in realtà sarebbe più esatto definire bianco, come fumo di gomma che brucia, ma più denso e asfissiante.
Me lo ricordo perché dentro quella nuvola opaca, e illuminata da fari che non avevano più nessuno da salvare, io ebbi per un attimo la netta sensazione di non essere più a Foggia, nella mia città, ma in un altro luogo, sperduto. Come un'isola di dolore.


























domenica 8 novembre 2015

La fine della verità è l'inizio della realtà


Sapere non vuol dire conoscere,
come saper leggere l'ora non significa avere un futuro.
Capire è un'ossessione figlia della vista, uno sforzo degli occhi; che appannati, infine, riposano, e ci lasciano vedere meglio. 
Le sensazioni che scendono dal rubinetto esausto delle crisi, goccia dopo goccia, invisibili e pesanti, non fanno un lago. Restano perdite; che non rimangono; anzi se ne vanno, proprio poiché perdute.
Finiti i giri da fare, si deve trovare un'altra strada. L'alternativa è tornare a casa senza esser certi di potersi rimettere in viaggio. Il punto di partenza non è uno spauracchio, un nemico da cui tenere le distanze, ma uno spunto. Di ripartenza, e di riflessione.
Assistere alla vita che scorre è un atto di verità; non ostacolarla è un atto di generosità; far sì che scorra nel verso da noi voluto è un atto di libertà.
Uscire di casa, vedere, toccare, non sentire, ascoltare, non pretendere, cercare, nelle fasi di pausa, nello sporco, nelle debolezze di ognuno, nei silenzi, un ritornello di gesti, un espediente maniacale, una faccia da conservare, e cedere, cedersi, lanciando un segnale, un collegamento, un pezzo del proprio pensiero, un'intuizione.
Interpretazioni, per sgombrare il campo dalle affermazioni.
E ricordarsi che non esiste differenza tra giusto o sbagliato.
Esiste dove decidiamo di stare, e cosa decidiamo di dare.


domenica 9 agosto 2015

Sensibili alle onde


Ogni giorno passato appresso al calcio è un giorno sprecato, o quasi.
Se ora mi sfrecciassero davanti agli occhi tutte le domeniche e i weekend e i turni infrasettimanali di tutte le partite giocate dal Foggia dacché mi legai alle sue più o meno fortunate sorti, ne finirei sfatto di nausea e stanchezza, allo strenuo delle mie forze mentali, come alla fine di un gioco durato troppo.
Per quanto il mondo del pallone in questi decenni si sia adoperato, con risultati eccellenti, ad invadere la nostra quotidianità, riproponendosi ora dopo ora col suo contenitore di preconfezionata originalità, pensare alla propria condizione di tifoso in una giornata "normale", una di quelle devote in esclusiva al barcamenarsi tra lavoro e affetti e questioni personali, rimane comunque un impegno da gestire con grande abilità.

Detto in parole chiare: nella situazione più difficile, all'apice del più grave intreccio di problemi, ci sono pur sempre ottime possibilità che un pezzo di cervello ormai fottuto resti legato alle vicende della vostra squadra. Anche marginalmente, superficialmente, a rate di pensieri impercettibili e di infinitesimale durata, ma tutti rivolti e originati da lì: "Foggia? Ho sentito Foggia?! Chi ha detto Foggia? Stasera gioca il Foggia? Domani gioca il Foggia? Prima o poi gioca il Foggia? Chi abbiamo comprato? Ascensori 'Matarangolo': madò si chiamano come quel cesso che giocava con Florimbj! Sei di San Benedetto del Tronto, ah sì ci sono stato in trasferta! Quanti anni hai, sette? Ricordo che avevo sette anni quando mio padre iniziò a portarmi con sé allo stadio..."

Una matassa di richiami condizionata da quella che è a tutti gli effetti l'occupazione stabile di una parte della nostra testa. E anche questa, come tutte le occupazioni, deve resistere a tentativi di sgombero. Gli assalti quotidiani, oltre che dall'incedere inarrestabile della cosiddetta maturità ("angor appriss au Fogg'?!"), arrivano soprattutto da ciò che intanto è cambiato attorno alla percezione di tale gioco infinito.
La commercializzazione del supporter, incrociata alla spoliazione dei suoi diritti più elementari (come quello al libero spostamento), ha toccato vette di ghettizzazione della partecipazione mai toccate prima. Ossia, adesso sono ben accetti innanzitutto spettatori. Il resto fa contorno. E alla lunga, come in ogni storia d'amore, anche il sentimento per una squadra e la sua storia può sfibrarsi fino a sfiorare il disinteresse.
Non è per forza un processo irreversibile, piuttosto un'onda che si allontana per poi tornare a bagnare la riva, spesso pure con moti più intensi e corposi.

Può capitare per anni, mesi, settimane; oppure solo per qualche istante di isolamento, di fastidio per la propria lesa dignità, di tifoso e di persona.
Quindi, in un momento, un solo pensiero basta a coprire ciò che i portatori di tristezza hanno provato a seminare. Da quando so per certo che si giocherà questa partita, lo ammetto, faccio un po' fatica a pensare ad altro.
Per quanto una sconfitta non sia la fine del mondo; per quanto a breve dovrò di nuovo cercare lavoro; per quanto sia solo Coppa Italia e dopo 17 anni di anonimato noi siamo tanto sfavoriti da non avere quasi nulla da perdere; per quanto faccia caldo, io stia morendo di sonno e il mondo che abbiamo costruito sia una mezza merda.

Insomma, stasera il Foggia gioca contro l'odiato Bari e no, questo non è un giorno come tutti gli altri.


martedì 2 giugno 2015

In viaggio mentre (non) dormi


Dove credi di andare?
E poi, pensi che basti credere per andare?
Pensare costantemente alla meta non aiuta a raggiungerla prima. Non è scritto in nessuna teoria scientifica.
Sperarla accogliente, misteriosa e fortunata non assicura certo la buona riuscita del viaggio.
Avere gli occhi fissi sulla strada è sicuramente il più naturale e logico dei passatempi, ma pure il più lento.
Le coste restano coste; le colline, colline; gli stadi, stadi vuoti; i vulcani, vulcani spenti; le spiagge, luoghi sempre troppo lontani; e i letti dei fiumi, spiagge deserte sempre troppo lontane.
Solo il cielo, forse, cambia. Ma nessuno guarda davvero il cielo quando avanza.
È molto più probabile che ci si perda a fissare la striscia che continua la terra, per esaltarsi ad ogni sua fugace deviazione.
Tratteggiando le riflessioni interrotte sull'asfalto, poiché c'è sempre troppo da pensare quando si è in marcia.
E i libri sono difficili e divorati, i dvd pochi e per pochi, i video su Youtube più infiniti di giga e batterie.
Mentre la radio non passa le montagne a meno che non sia una preghiera o una bestemmia.
Nel tragitto in treno i vetri dei poveri tremano, quelli dei ricchi stanno fermi e isolano. Nei primi le parole rimbalzano, negli altri invece scoppiano dentro bolle a forma di cuffie.
Quando allora si prende in mano lo smartphone, quello è il segnale di abbandono: ci sono per tutti i miei contatti, non ci sono per nessuno.  Risate, rimorsi e sbadigli formato 6 pollici.
Camminando, non faresti molta più attenzione. Avresti solo più freddo o più caldo, e risparmieresti indecisione.
Il percorso si fa meno temibile, la scelta non urgente, la soluzione mai irrimediabile.
L'unica cosa che conta davvero è essere sempre in movimento, anche sul posto.
Perché ci sono tante strade per quanti modi di viaggiare conosci.


sabato 18 aprile 2015

Pensavo fosse odio, invece era una trasferta a Lecce. (Lettera di scuse a dei foggiani)


Non tutto scivola addosso.

C'è qualcosa che resta, si sedimenta, lascia tracce indelebili sotto la pelle, e riemerge fastidioso a provocare irritazione anche a distanza di anni.
Ci sono fatti, situazioni oggettive e precise, per cui non esiste il lavoro di pulizia del tempo. Nessuna prescrizione, nessuna delega al ricordo in nome di un futuro già scritto.
Come le condanne postume, che condanne non sono mai perché la vera giustizia non vive fuori dalla vittima ma nasce nel suo cuore, proprio mentre sta subendo il torto, e lì dentro si coltiva e cresce per l'eternità, trovando sbocchi inattesi.



Così domenica io a Lecce non ci sarò, perché non potrò esserci.
Non ho i soldi e non ho modo di organizzarmi, ma ancor di più non ne ho diritto. Non sono autorizzato ad assistere ad una partita di calcio della mia squadra del cuore, insieme ai fratelli, le sorelle, i padri, le madri, le nonne, i nonni, i nipoti, i figli e tutti gli stronzi che continuerebbero ad averne voglia.
Quando è partita ufficialmente l'operazione "tessera del tifoso", sapevo che avrei ridotto di molto i miei viaggi per il Foggia; sapevo che tutto non sarebbe stato più come prima e sapevo che avrei dovuto fare ricorso a tanta immaginazione per sperare il ritorno di tempi migliori.
"Ma fattela sta cazzo di tessera", mi è stato detto un'infinità di volte, "che è solo una carta in più delle mille che già hai!": in fondo, non appartengo a gruppi organizzati, non ho mai avuto il vincolo stretto di fare patto con i miei compagni di gradoni. Il mio compagno è sempre stato la Curva, tutta; o almeno tutta quella devota al sostegno incessante, al colore, al boato, al divertimento. Al vedere la partita dopo la partita, in tv.



Io, senza i fanatici e testardi ultrà che per anni m'hanno incantato col loro modo eccessivo di stare allo stadio, dentro quella curva non ci avrei mai messo piede. Ed ora non sarei dove sono adesso, seduto alla scrivania che è quasi l'alba del mio terzo o quarto weekend da disoccupato, concentrato davanti al pc per scrivere di un amore che si è fatto rabbia, smarrimento e poi rancore.

Non si tratta solo dell'idea di autoescludersi a priori dalla possibilità di assistere ad una sfida di terza serie "tra nobili decadute", si sarebbe detto un tempo, nonché duellanti pugliesi in un derby che torna dopo diversi anni; e né soltanto dell'impossibilità di sostenere la mia maglia in una gara delicata che vale le ultimissime chance per sperare nella promozione.

Qualcosa di più: è il sapere che c'è invece chi ci sarà, domenica, al Via del Mare. Amici, conoscenti, rossoneri come me, col biglietto pronto e i pullman preparati da Foggia, in tutto si parla di 200 presenze circa, neanche miseria di questi tempi... E io?! Io dove sono? Perché non sarò lì, insieme a tutti gli altri? Perché ci è stata tolta, e ad altri più di me, la libertà di partire? Perché non ho mai potuto nemmeno pensare di farla questa trasferta?

Quando ho deciso che il mio "no" alla tessera sarebbe stato inderogabile, finché almeno il cuore e la testa avrebbero retto la decisione, ho immaginato che il passo successivo sarebbe stato solamente uno: basta tifo, basta pallone! Ma prima, già lo sapevo, avrei vissuto anch'io la fase dell'odio verso i tesserati, verso chi può partire e ancor di più verso chi potrebbe, e non lo fa. Questa fase è arrivata con ritardo, in fin dei conti, ma è poi esplosa, silenziosamente, come i gemiti di quando stringi i denti.

Così, pur consapevole di quanto immaturo e stupido sia ciò che provo, vengo travolto dal fastidio e da un'invidiosa stizza ad ogni immagine o parola dei foggiani mentre si preparano per essere domenica sugli spalti a Lecce. Anche se miei amici, anche se Pasquale e Daniele. Anzi, soprattutto loro. Perché il risentimento vero conta solo nemici.

Ed è per questo che ora vi chiedo: perdonatemi, fratelli, se vi avrò odiato! E portatemi una vittoria.
Avanti Foggia!

sabato 11 aprile 2015

Fratello dove sei? (O della scoperta del settimo senso: l'autopercezione)

FOGGIA - CASERTANA o qualcosa del genere

A luci spente. Allungo la mano. E trovo una sciarpa, retta all'estremità da un'altra mano, sempre mia. Non vedo cosa c'è scritto, ma so dove siamo, perché resta illuminata una parte che illumina tutto. Una parte per il tutto. Una sineddoche: la parte è una striscia di campo, il tutto è quello che ho fatto in questi 27 anni quasi ventotto.
In verità non so di preciso cosa sia accaduto dal 3-0 alla Lucchese di Orrico in quella domenica del '91 ad oggi. So che il calcio è diventato nel frattempo un malato terminale; so che i tifosi tifano più a casa che allo stadio; so che dovrò mandare un inutile curriculum non appena finisco di buttare già ste righe; so che ho cambiato curva; so che ho imparato a lasciare e ad essere lasciato; so che non ho mai imparato davvero a farmi la barba; so che ho due nipoti, e giuro non avrei mai immaginato potesse essere una cosa tanto dolce; so che mi fa male la testa, quasi ogni quindici giorni, perché quasi ogni quindici giorni immolo quel che resta di me stesso alla causa meno nobile che esista. Perché "chi te lo fa fare"? Perché 22 coglioni che corrono appresso a una palla. Perché come fai a pensare al calcio? Perché siete rimasti quattro gatti. Perché non vedi che te la fai coi delinquenti? Perché il calcio a Foggia è morto.


A luci spente, ve lo dico: siete morti voi. Tristi approfittatori d'infelicità. Logorroici speculatori del disagio altrui. Cacacazzi. Anzi, no, non ve lo dico. Lascio cantare il buio, dalle cui gole rauche e alcoliche provengono canti improvvisati misti a ululati e battimani fuori tempo. "Alè alè oh oh... 'A matin n's vonn avzà... Alleluja Alleluja... Tu non sai cosa ho fatto quel giorno... Che bello è quando erutta..." ah no, questa non si può dire! È discriminazione geografica, geologica, sociologica, roba da 41-bis insomma.
Loiacono col ginocchio, dicono, hanno detto a fine primo tempo, poi ho riferito pur io, dando il probabile per assodato, e rimettendolo in circolo come certo, ché tanto non interessa a nessuno né il chi e nemmeno il come. Interessa solo l'aria. Quella dentro la palla, quella fuori dalla palla, quella che muove la rete, quella che riporta il boato, quella scaraventata dall'esultare scomposto, quella che ti solleva i piedi da terra.
I playoff, le Madonne invocate, Verile, il fallimento, i soldi che n'g stann, quella buglia della Merletti, De Zerbi resta, i diffidati, Mario Facco e mi gratto, Campilongo, il borghetti, le "spaccate", Sarno e Gigliotti squalificati a Lecce, la Serie B che non vediamo da diciassette anni, le donne: tutto in un soffio. Un pugno al cielo agitato meccanicamente neanche fosse un cric che ti solleva l'anima per portartela nello stato più vicino a quello che si usa definire "un sogno".


A luci spente, in camera mia, ho appena finito di rivedere la partita sul pc; anzi, di vedere, ché mica si guarda granché dal fosso di persone in cui andiamo a ficcarci noi che, più che assistere alla partita, diciamo che la realizziamo, per confrontarla poi con l'avara precisione del racconto di cronaca.
A luci spente, perché non ho bisogno di vedere dove sono. Lo so, lo sento. Sono dove ci si arrende solo all'evidenza, e spesso neanche a quello. Sono nel posto giusto, sono dentro di me, sono a casa. E pure quasi nei playoff.

mercoledì 25 marzo 2015

Quelli che restano sono quelli che non se ne vanno. (Pare un post sui tifosi)


Restare più del tempo stabilito. Il sogno di una vita. L'immortalità.

Da bambino, quando mi portavano dai miei cugini, o ancor di più quando la sera andavo con papà da Tonino per vedere i primi posticipi della domenica di Serie A, albori della pay-tv, ed io però in realtà volevo solo giocare con Pasquale, suo figlio, perché ci divertivamo un mondo.
Poi, più avanti, quando dai miei cugini ci tornavo per vederle io le partite, e una volta finite si doveva risalire in auto e rientrare a casa, anzi sotto casa a cercare parcheggio. E più avanti ancora, nelle prime sere strappate al solito appuntamento dai nonni, in giro con gli amici a stare, con quel dannato orario limite a cui rubare ogni volta cinque-minuti-cinque, fino a dilatarlo di mezzore ed ore.
Allora le serate a cena dagli amici, e i "resto qui a dormire" pieni di balle su dove si fosse davvero, e i weekend organizzati e rovinati per non essere riusciti a trovare un modo credibile per giustificare tutti quei giorni fuori casa, sperando di guadagnarne sempre uno in più. Come si fa con i minuti d'amore, mentre lei preme con le sue mani per averti e per chiederti di non venire, e anche tu vorresti restare ancora un po' qui. Dentro. E oltre.

La prima forma di libertà che mi viene in mente è sabotare il tempo.

Ho assaporato la materia dell'indipendenza la prima volta che sono andato allo stadio da solo. Non perché non avessi nessuno a controllarmi o a badare a me, bensì soltanto per la possibilità di scegliere da me dove stare e soprattutto fino a quando restare. Non quanto tempo, ma per quanto tempo ancora.
Ricordo bene un episodio. 7 gennaio 2001, Foggia-Acireale: il Foggia non riesce a sfondare il muro alzato dai siciliani, la partita sembra una di quelle destinate allo 0-0 anche a distanza di giorni, e a quei tempi un pareggio in casa non è per niente cosa gradita. Così mio cugino più grande, compagnia essenziale e nume tutelare di quegli anni di stadio, decide irritato per la ritirata: al 90esimo, non vuole neanche vedere il recupero. Non riesco a fargli cambiare idea, probabilmente non ci provo nemmeno. Siamo fuori dalla struttura in pochi passi, e dentro l'auto in un paio di minuti. Via.
All'arrivo a casa sua, e alla tradizionale verifica defaticante dei risultati sul televideo (pratica che resiste indefessa nonostante l'usura tecnologica), tra le righe sparpagliate si legge: FOGGIA-ACIREALE 1-0. Quando avevamo segnato?? Chi, perché, come?? Si scoprì poco dopo che negli ultimi secondi di gara, in una mischia casuale e un po' fallosa, e per questo meravigliosa, il nostro ex bomber Gigi Molino aveva trovato il modo di battere il portiere nemico.
Giurai, quel giorno, che non sarei mai più andato via prima della fine. Capii, nei mesi a seguire, che la fine non sarebbe stata più quella decisa dal fischio dell'arbitro.


Anche per questo, caro ragazzo, anzi bambino, quando ho visto la foto che ti ritraeva solo nel bel mezzo della storica Curva Sud romanista, chissà se per scelta tua o perché maldestramente dimenticato, non ho avvertito la benché minima impressione di sentirti perso.
I tuoi compagni di fila avevano abbandonato il settore per protesta contro la batosta che la Roma stava subendo dalla Fiorentina, mentre una parte dei rimanenti era più in basso e aspettava soltanto che finisse la gara per urlare ai propri giocatori, perché certe volte va fatto, ma chissà se fosse questo il caso, che la maglia va onorata, sempre. Perché una casacca che rappresenta la passione e la storia di una comunità non è proprio la tuta del pilota Ferrari e nemmeno la divisa dello schermidore. È un pensiero non facile, a molti non va giù, ma quando lo senti allora sai di cosa sto parlando.
Ci sono molti modi di rimanere, insomma, e chissà tu a quale di questi fai riferimento. Ma eri lì, e ciò basta a farmi pensare che, nonostante la cocente sconfitta, quella resterà forse la partita più bella della tua vita.

Ci sono molti modi di rimanere, e di andare oltre il tempo che ci si era dati.
Vero Pasquale? Una vita intera appresso al Napoli, e la fatalità di una sola serata per spegnere tutto. A Mosca era freddo, il cuore poteva pure essere preservato per una gara non fondamentale, la qualificazione era quasi in cassaforte, e a qualcuno sarebbe venuto il pensierino di restare a casa. Ma non a te, non a quelli come te, non a chi il tifo lo sa fare solo in questa maniera, oltranzista. "Ultras", non a caso, li chiamano. Io li chiamo generosi. Né buoni, né cattivi. Qualcosa di più. Qualcosa che va, appunto, oltre. E che resta.

martedì 10 marzo 2015

L'oro di perdersi


Mamma, vorrei solo sentirlo, riassaporare il suo tono caldo e vago, ti giuro mamma, non è altro che chiedo, solo quelle parole trascinate sul fondo, lì dove i concetti chiedono di essere chiusi e lui mi affaticava trattenendo attimi al mio spazio di risposta, soltanto un'altra volta il suo "Pronto, Giulia?!", per prendersi il tempo necessario a prepararsi a esordire con "Amore, mi senti?", solamente ancora un'ultima volta quell'intrattenersi teatrale, quelle sillabe sempre equamente divise al suono di "Che ne dici se...?", e poi in realtà aveva già deciso, solo quello, solo l'ansia che potessi dirgli di no, solo quello! Solo sentirlo!

Domani ti arriverà una telefonata.
Sarò io.
Rispondi, ma non parlare.
Dimmi solo dei "sì", decisi, quando mi interrompo e credi di aver capito.
E dei "no", altrettanto chiari, lì dove mi sarò fermato e sarai confusa.

Il bigliettino di Luca, nella sua forma sconclusionata, non lasciava dubbi. L'avrebbe chiamata, per darle l'ennesima opportunità di non scelta, stavolta soltanto un po' più netta. Non posso essere sicura, ma potrebbe trattarsi della solita storia, di quei weekend fuori porta che fanno una volta al mese, e che finanziano con l'oro di battesimo e comunione di Giulia. Ha sciolto e svenduto ormai quasi tutto, e pensa io non me ne sia accorta.
Io, la mamma. Io, che ha messo quell'oro lì dove lei va a prenderlo per disfarsene.
Non mi offende l'idea, né mi scandalizza l'immagine, la scelta o quello che fanno dei soldi ottenuti con quelle cianfrusaglie. Mi spiazza la facilità con cui mi tiene fuori da tutto questo, come se lui fosse il capo da proteggere, e noi il bestiame da ignorare.
Però è a me che lamenta la sua assenza; è con me che si torce le budella per tutte le volte che Luca s'è finto l'uomo della sua vita, prima di sparire uno, due, tre giorni nel nulla di assurde crisi di panico. Povero figlio, ha degli attacchi e non sa cos'è; così sparisce da Giulia, che è molto più matura di lui, e saprebbe pure come prenderlo, ma non sa come dirglielo. Teme di passare ai suoi occhi per il maschio della coppia. Teme di essere più forte.
Povera figlia. Poveri ragazzi. Pensano di essere moderni, ma soffrono paure di cui mia madre avrebbe riso.

- Ciao Giulia. Lo so, ho fatto un patto con te mille volte, mille volte ho rischiato di frantumarlo, e ho promesso ogni volta di non ritornare allo stesso punto. Ti ho detto che avrei preferito deluderti piuttosto che ferirti ancora. Mi hai avvisato che solo su un punto saresti stata intransigente: niente ipocrisia, nessun tentativo. "Fai quello che devi, ma fai quello che credi: noi non stiamo insieme tanto per...!"

- Sì.
- Giulia: se mi ami, domani parti con me! Prendiamo due biglietti, troviamo un volo per una meta a caso, spariamo insieme e stacchiamoci da questi problemi!  Con l'oro che ti resta dei soldi li abbiamo, ricominciamo in un altro posto, tutto da capo! Io ti amo, ma qui non è possibile! I rancori che abbiamo seminato ci stanno divorando, io ho paura di ogni passo: siamo immobilizzati, cazzo!

- No.
- Aspetta, mi spiego meglio: ho detto domani, ma non dev'essere per forza domani. Dico nei prossimi giorni, soltanto che sia il prima possibile...
- No. Adesso non stai capendo tu: ho detto no!
- Aspetta Giulia, lo sai che se non posso perd..
- ..Ecco: non vuoi perdermi, ma non vuoi stare con me. Qui ora. Conserva bene il mio amore. Addio!


Quel "no" era l'unica parola che mi rappresentava ai suoi occhi, in quel momento. Ed è stata la parola che ha ricevuto, ma non come credeva.
Ha provato a fare suo anche il mio rifiuto, a togliermi il diritto di negarmi, concedendomi il "no" per le volte in cui non avrei capito.
Semplicemente, ancora una volta, non voleva che scegliessi; ma stavolta perché aveva paura che avrei scelto di continuare ad amarlo.

giovedì 5 marzo 2015

"Fra Sestri che picchia dodicenni in Villa Rossi". Quando la violenza è un verbo di Facebook


C'è un video che sta girando su Facebook da qualche ora. Dovreste poterlo vedere, è un po' duro e forte, ma niente d'eccessivo. Insomma, a chi non è capitato di assistere a una rissa, o a un pestaggio, anzi, di quelli veri, dove il rumore delle botte fa da sottofondo ritmato alle urla che sputano rabbia e dolore.
Ci sono dei giardini comunali: quelli di Villa Rossi Martini, meglio conosciuta solo come Villa Rossi, a Sestri Ponente. Praticamente Genova, ma non proprio. Comunque Liguria.
C'è lei, quella che le dà. Ha 17 anni, o almeno così è scritto: è tozza, bassa, ha dei tratti marcati e un abbigliamento involontariamente casuale, con dei capelli neri, legati, che seguono ignoranti le mosse della sua testa.
C'è l'altra, che le prende della cosiddetta "santa ragione". Pare sia non più che 12enne: cappotto rosso (forse un Woolrich), blue jeans e stivaletti neri come quei capelli tirati e presi a pedate per i circa due minuti e mezzo di immagini. In faccia, la smorfia, malmenata, di una bambina che si è arresa all'evidenza di voler essere cresciuta troppo in fretta.
Quindi ci sono gli altri, i guardanti e i filmanti, gli spettatori e i tifosi silenziosi o inconsapevoli. Perché chi resta a guardare ha sempre una ragione, e chi non muove un dito lo sa bene dove ha tenuto le mani in quel momento.


Ah no, non è tutto. C'è, infine, il pubblico social. La quinta dimensione dell'esistenza, la profondità accennata che si materializza in lunghezza, perché è da questo metro che si capisce se un post ha fatto successo, scalpore o semplicemente provocato la più terribile delle esigenze: quella di commentare. Di dire che sì, si fa! Oppure no, non si fa!... E partono così le identificazioni di genere ai danni della violenta mini-teppista, condite da tentativi di soluzione (finale).

Puttana.

Ebrea.

Ritardata.

Gesù.

Militare.

Napoli.

Provincia di Foggia (auto-accusa campanilista).

Pericolo D'Urso.


Botta d'ironia.

Allora ci sono cascato anch'io. Non su Facebook, direttamente. Ma qui, ora, scrivendo a un lettore che non c'è, perché non c'è l'obiettivo di questo mio post, e di queste mie parole.
Nel frattempo la Procura di Genova ha pure aperto un'indagine per concorso in lesioni aggravate, partendo appunto dalle immagini arrivate sul social network dopo essere state caricate su Whatsapp da qualcuno che voleva evidentemente vantarsi e godere dello scempio di un pestaggio impari.
Come la stessa autrice, questa giovane, una volta nota come Fra Sestri, che dal momento dell'ascesa 2.0 delle sue prodezze manesche ha capito di aver chiesto troppo persino al suo egoismo in erba, finendo col cancellare il suo profilo e venendo "sostituita" dalla pagina "Fra Sestri che picchia dodicenni in Villa Rossi". Che credo non abbia bisogno di introduzioni di rito.
Si tratta, in ogni caso, di una specie di pagina di denuncia, anche se qualcuno ha avuto più di un dubbio, e in molti hanno pensato di segnalarla per pubblicità o vero e proprio incitamento all'odio. Mentre parecchi altri hanno apprezzato il tentativo di sputtanamento mediatico della scalmanata che si accanisce sulla povera ragazzina come in un picchiaduro.
Nel caos, ecco però creato l'imbuto di indignazione pronto a canalizzare, verso un unico contenitore, la rabbia di chi si è sentito violato e turbato da un episodio che forse avrà giustizia, o forse no, ma che all'atto pratico/comunicativo dimostra come la violenza non sia tanto un modo per risolvere i conflitti, quanto sempre di più una chiave per accedere alle dinamiche di una società disgregata e bisognosa di vendette e punizioni.
Come se chiunque, scrivendo su Facebook, bonificasse personalmente la propria coscienza dal peccato di non essere stato lì, dove una diciassettenne in trance di protagonismo e cattiveria sprecava tutto il suo disagio contro una povera adolescente indifesa, mentre altri ragazzini, spettatori inermi travestiti da incarnazioni social della realtà virtuale, assistevano silenti.
Pronti anch'essi, dopo, a puntare indici. Voci del verbo commentare.

lunedì 2 marzo 2015

La scelta di stare in mezzo alla strada


È importante ricordarsi di morire in tempo, di non andarsene prima che sia troppo presto.
Vestirsi in modo discutibile, e far credere che non sia una cosa voluta.
Girare la testa nei momenti decisivi, e togliere immobilità allo scatto.
Tenere le mani solo nelle proprie tasche.
Non avere paura di proteggersi.
Cantare la rincorsa all'infelicità alzando la voce solo se necessario.
Camminare a testa normale, ché non si ha sempre qualcosa da dire o nascondere.
Giudicare e non temere d'essere giudicati.
Inventarsi una giustificazione per ogni opinione errata.
Accorgersi d'essere al centro dell'attenzione.
Lucidarsi le occhiaie per una nuova giornata di stanchezze.
Mangiare, e imparare a dimenticarsi di avere fame.
Protestare contro i sorrisi falsi e gli alberi abbattuti.
Evitare di nominare chi non dovrebbe esserci, ma rimane.
Desiderare le botte solo quando si sa d'esser capaci di prenderle.
Avere una bandiera di riferimento solo se non cambia strada.
Coprirsi il volto senza smettere di riconoscersi.
Verificare di non aver perso niente.
Essere di parte su se stessi.
Chiedere di poter partecipare al proprio funerale.
E sapere che c'è qualcuno disposto a fare quegli stessi passi.



domenica 8 febbraio 2015

Non si può andare sempre avanti. (O del perché vorrei chiamarmi Fernando)

Manchester rossa, 19-4-2000

Vicino alla fine. Neanche tre metri di campo, che sono quasi come tre ore, o trenta minuti.
L'avversario è alle costole, potrebbe mordere un braccio. Il destro, per la precisione. Ha scelto quella zona, perché solo di là ha senso andare. Dinanzi c'è il limite imposto dalla società, a sinistra il pericoloso mistero della natura sotto forma di altri cannibali a cui sarebbe lecito non offrire il fianco.
Servirebbe un fratello, gemello, che si staccasse dal corpo e andasse via con la palla, nascondendola, e cercando per essa un futuro migliore. Una vera nuova occasioneUna fuga, dalla sagoma nero prestigio. Ora che è possibile solo fermarsi, ora che tutti s'aspettano una presa di posizione. Anche per via di quella fascia al braccio, che stringe il sangue e ne onora la circolazione.
Tocca farsi largo con un'azione di retrovia, sgomberare i vicoli bui, abbattere il muro alle spalle e ritrovare il resto della truppa, che ha perso il suo capo e la rotta.
Gli occhi guardano avanti, le braccia si aprono in avanti, i piedi sono proiettati avanti, il busto è spinto in avanti. Il pallone, come sempre: avanti. Serve un colpo netto che lo spinga via, affinché scappi, superi le linee nemiche e ritrovi il proprio posto nel gioco delle parti, che vuole vederlo tendere verso una delle due porte.
Tacco. Perché occorre il colpo coraggioso, quello con la sfera che sfreccia e fugge indisturbata dal retro, mentre l'essere umano fa da esca e resta fermo a sperare che il piano vada come aveva esattamente progettato che andasse.
L'angolo è stretto, il pensiero è veloce, l'esecuzione perfetta, la gloria eterna: la generosità ha pagato, ora bisogna pensare a dare un senso a tutto quanto il resto.
Ma attenzione: anche la sagoma fugge! L'uomo in nero non è più costretto, è libero! Ha seguito la scia tracciata dal pallone e si è divincolato, ha spezzato le catene della marcatura. Sapeva tutto: aveva guardato alle proprie spalle pur non potendo vedere; aveva capito d'essere egli stesso la sola e unica via d'uscita su cui fare affidamento.
Ed è quindi di una grazia virile ed eccitata che si riscopre piena la sua corsa, mentre raggiunge il cuoio che lo aspetta impaziente sull'erba, pronto a non varcare la linea di fondo.
Perché la palla non sarà mai sola e l'uomo non sarà mai schiavo, finché saranno idee e spirito a guidarli.


È così che nasce il futuro, e Fernando Redondo lo sapeva, quella sera. L'ha sempre saputo.

mercoledì 7 gennaio 2015

Prima di Pino Daniele, dopo di Pino Daniele

Allerìa.

Una parola, e una sola canzone. Da ascoltare ripetutamente, fino alla nausea, ché tanto so non arriverà mai.
Non mi serve altro. Nessun album, nessuna playlist o raccolta speciale. Pensa il paradosso, Pino: mi basta Allerìa per salutarti. Per dire, un'ultima volta e per sempre, quanto sei stato per me. Perché se ogni essere umano ha un artista, un monumento, un'immagine, un titolo, una melodia a cui corrispondono le corde più profonde della propria esistenza, tu le mie le hai suonate e cantate tutte.

Io avevo otto anni e tu, Pino, praticamente non esistevi. O quasi. A scuola mi capitava di sentire qualche compagno di classe canticchiare "Oggi è sabato, e domani non si va a scuola..": che bella filastrocca, pensavo. Poi, spiando come tutti i mocciosi le mosse di un cugino più grande, tuo grande fan e tuo omonimo, capitai al nostro primo vero incontro: una cassetta con su registrato Bonne Soirée. Lo schifai. Era roba vecchia, e tu intanto diventavi brutalmente commerciale nel tuo nuovo universo, fatto di Che male c’è e Dubbi non ho, di Jovanotti e Giorgia, roba che a pensarci adesso...

Così ti trovai, così m'appassionai alla tua voce tirata, a quella parlata spiccia che mi si piantava nelle orecchie all'istante, e non usciva più di testa.
Allora iniziai a scavare, sempre più indietro, canzone dopo canzone, nella tua sterminata produzione. E lì fu la sorpresa, quella di non riuscire a smettere; e poi fu la meraviglia, di scoprirti uno che aveva cantato quel che avrei voluto cantare io, come avrei voluto dirlo io: "E saglie 'a voglia d'allucca' / ca nun c'azzicche niente tu / vulive sulamente da' / l'alleria se ne va…". Cosa altro è, se non questo, la corrispondenza?

"Passa 'o tiempo e che fa / se la mia voce cambierà". Salgono ora ricordi confusi, strappati come il nastro tirato via con la penna da quelle cassette consumate nello stereo.
La maledizione dei best of, che aggrovigliano i fili del tempo e cancellano la storia di un uomo e della sua musica. Gli amici di mia sorella che suonano Quanno chiove, ed io che assisto, segretamente incantato dall'idea che un pezzo in napoletano possa piacermi così tanto.
Un pomeriggio dai nonni, la tv su Canale 5, c'è quel comico sfiorato di Fiorello che canta Napule è: la brutale magia di quelle parole m'ipnotizzò al punto da pensare si trattasse di una canzone della tradizione partenopea. Uno di quei "grandi classici", come si dice, insomma niente a che vedere con la prosa pop di Se mi vuoiche nel frattempo intonavi con Irene Grandi.


Invece eri tu, Pino: "e non ti aspetti niente / perché lo sai / che passa 'o tiempo / ma tu non cresci mai". Una scossa, il tasto premuto su un interruttore che accende una passione: quanta bellezza nei dettagli, nei minimi particolari. Quanti album masticati con mio cugino Andrea, più piccolo di me: a lui piaceva il ritmo, a me tutto.
Più correvo alle spalle del tempo, più mi nutrivo di ogni briciola dei tuoi lavori, rintracciando i rimasugli col dito a scavare nel recipiente delle tue opere meno conosciute, e più mi vedevo trascinare su un'isola in cui ero da solo con le tue note e i tuoi versi.
Allerìa, appunto: "Voglio 'o sole pe' m'asciutta' / voglio n'ora pe' m'arricurdà".

Quante volte ho asciugato le mie paure ascoltandoti e riascoltandoti. Quante volte ho chiuso nel tuo bagaglio di pensieri e sogni in musica la mia tristezza. Quante volte ho rinnegato di esser stato dato alla luce abbastanza in ritardo da non aver potuto vivere dal vivo la travolgente superiorità. La superiorità di un universo relativamente soggettivo di meraviglie con cui sembravi parlare solo a me.
Che onore, Pino, e che rivoluzione! In me, e con me. La tranquillità di star male, come può star male un ragazzino che non sa mai cosa fare, sapendo poi di potermi perdere nelle tue incisioni: "pe' nu mumento / te vuo' scorda' / che hai bisogno d'alleria / quant haje sufferto / 'o ssape sulo Dio."

Non ho mai obbligato nessuno ad ascoltarti, Pino. Ma, potendo, ho aiutato gli altri a conoscerti. Lo dovevo a te, e a loro. Non potevano non sapere di Viento 'e terra, di Cammina cammina, di Chi tene 'o mare, di Notte che se ne va, di A testa in giù, di Femmena, di Bella 'mbriana, di I got the blues, di Vita mia, di Io vivo come te, di Aria strana, di Schizzechea, di Che ore so', di Anna verrà.
L'ho fatto, cazzo, ho fatto la playlist. Però non posso racchiuderti in un numero di pezzi, come non ho potuto più seguire le tue incursioni, sociali e musicali, post Medina (eviterei volontariamente di considerare tuo Come un gelato all'equatore).

Ma chi se ne frega: "Passa 'o tiempo / e nun te cride cchiù / e ti resta solo quello che non vuoi". Se solo sapessi, se solo sapessero quanto valore hanno avuto per me le immagini del tuo nasone, la tua pancia subito chiatta, quei capelli strafottenti, l'intonazione che si fa finta smorfia di sorriso, la sigaretta sul palco, ogni chitarra appiccicata alle dita e domata dalle tue mani: l'evidenza di essere nato per fare solo quello e fottersene di tutto il resto.



Resta solo Allerìa, Pino, per aver incrociato la tua strada nella mia.
E la malinconia, di non poter tornare indietro per rivivere tutto.

domenica 4 gennaio 2015

Menate.

Pugn 'n bacc' e sguard 'n terr
ovvero
Post da leggere se sei di Foggia o se hai appena assistito a un pestaggio


Erano uno, due tre.
Erano quattro, no erano cinque.
Erano sei, come i sensi che ho perso dopo l'ultimo pugno.
O erano sette, come le volte che m'hanno detto "Statt citt, fatt' i cazza tuj', tin' trent'ann..."
Erano otto, erano nove, erano dieci. Come le dita di due mani che t'arrivano in faccia insieme.


Ma a chi? A me? Macché, io mi faccio i cazzi miei!... E se non me li faccio, me li fanno fare.
Mi convincono, ci riescono sempre, hanno una volontà di ferro, di solito nascosta sotto il giubbotto.
Cerco di vedere abbassando lo sguardo, ma gli occhi mi prudono e i muscoli s'irrigidiscono: "Semb' i stess fatt, sta città d' merd..."
La calma è la virtù dei forti e la salvezza dei codardi, come me. Me ne sto qua mentre vorrei stare là, ma in realtà là non ci vorrei stare mai.
Vorrei spurgare questa strada dal male, attirarlo a me, ipnotizzarlo, placarlo e spingerlo via con un calcione: "Vattinn' a fammocch va'!"

Otto per otto, dente per dente.
Quello caduto, tanto poi lo viene a cercare papà con zio Antonio. Sono stati in galera, mo hanno scontato tutto, ma sanno ancora il fatto loro: so quel che dico.
Io e loro non ci facciamo mettere i piedi in faccia da nessuno, al massimo le nocche. Gliel'ho detto a quello: vieni nel vicolo, che risolviamo la cosa.
È venuto. Insieme a una decina di amici. E mo che fazz?
Sanguino, sono rimasto solo: "Tre contr' a un': sti bastard!"



Io qua non posso fare niente.
È inutile che dite, ancora vi pensate che è facile arrestare un ragazzino che scappa in scooter...
Dite che l'ho lasciato andare? E dite, dite...
Ah, dite che mentre parlo con voi quelli stanno ancora in giro a fare il comodo loro? E dite, dite...
Mi volete dire che ho paura? Che penso a pararmi il culo lasciando stare chi appartiene a certe "famiglie"? E dite, dite...
Ah, non lo dite? È perché vi cacate sotto pure voi. Ma io almeno c'ho un motivo: rischio il posto.
Un inseguimento, parte un colpo, una cazzata, e non resta più niente. Voi, invece, non rischiate un cazzo. Al massimo la vita.
Comunque me ne vado, vicino alla stazione stanno degli extracomunitari senza documenti. Mocch' a lor'.

Io non ho fatto niente!
Ho provocato, sì, ma non ho fatto niente!
Ti volevo crepare di botte prima io, è vero, ma non ho fatto niente!
Ho fatto il capozzello per non farti fare il capozzello, ok, ma non ho fatto niente!
Sono tornato per cercare qualcuno che potesse venire a prendere uno a uno questi criminali che m'hanno menato, e me l'hanno detto "I truv'm, i truv'm...", certo che me lo ricordo, ma non ho fatto niente!
Non sono scappato perché sono costretto a non avere paura, e invece di tenermi le botte sono venuto a prenderne altre, già, ma non ho fatto niente!
Non ho fatto niente. Ho odiato, come tutti. Chiamate un'ambulanza.

Avvicinati. Non ti avvicinare!
Che sei pazzo?! Ma nessuno li ha fermati?!
Sei sporco di sangue. Così impari a metterti sempre in mezzo!
Intanto c'è la processione che assiste indisturbata, manca solo il morto da seguire.
Hai fatto le foto? Hai fatto il video? Domani taggami.
Sì, dall'ospedale...
Io chiamo la polizia. Fai uno squillo e fatti richiamare, che loro c'hanno i minuti. E u timp' da perd.
Oh, però: abbassa la voce!
O abbassa la testa.