lunedì 23 settembre 2013

Le confessioni di un comico che non faceva ridere


Davanti al palco siamo tutti grandi: grandi artisti, grandi figuracce, grandi risate, grandi imbarazzi. Ma dietro?
Nell'anticamera del fallimento ci siete mai stati, la placenta del successo vi ha mai accarezzati? Avete mai provato a sbagliare da inutili, da sconosciuti, dalle retrovie?
Chi non ha il coraggio di suggerirsi le frasi davanti allo specchio non sarà mai un grande attore, e nemmeno il peggiore dei cani. Sarà soltanto uno dei tanti conati rimasti tali, due dita in gola troppo piccole e troppo poco incisive per ribaltare una digestione, figuriamoci un'intera carriera. E sapete come si chiama la malattia di chi deve ridimensionare i suoi grandi progetti per via delle mani piccole? "Minimanismo".
Avete riso? Neanch'io, è un momento che va così, ma non mi abbatto. Come già detto, ho visto pensieri eccellenti spalleggiarsi e divertirsi al centro della piazza, per poi prendersi a pugni una volta girato l'angolo. Dietro le quinte dell'esibizione, lì dove la verità è più vera.

Un giorno di tanti anni fa, durante un secondo di tanti pranzi fa, stoppai senza furore, ma seccamente, una biografia non autorizzata con cui mia madre s'apprestava a presentarmi agli ospiti: "Non ero portato per il conservatorio. Sei tu che mi ci hai portato, è diverso!". Io colsi l'ironia, i presenti la stizza con cui la misi a tavola, mia mamma soltanto un feroce e impercettibile crollo delle convinzioni di una vita, la sua. Come se adesso qualcuno vi dicesse che per anni avete leccato i francobolli dal lato sbagliato.
La tavola si immerse in una piscina sporca di improbabili cordialità, mio padre prese a versare vino più a sé che agli altri, mia madre si assentò e lasciò a tavola solo degli occhi vuoti di biglia, mentre al tg1 Oscar Luigi Scalfaro chiedeva riforme istituzionali, Casini si diceva d'accordo, e il capo di Stato riappariva per assicurare che di Casini non ne sapeva nulla.
Intanto io, faccia e orgoglio da boia rinnegato, toccai con mano l'ennesimo letargo di silenzi che m'avrebbe atteso in famiglia. Ma al termine della giornata, quando i figuranti s'erano ormai fatti largo giù in strada, sentii indistintamente mamma che nell'atto di sparecchiare la tavola mi convocava accennando un "Vieni stronzo..e così ti ci avrei portato io al conservatorio?!..."

Aveva aspettato le ore piccole per perdonarmi, forse non voleva farsi notare. Certo, non  aveva preso bene la mia uscita, ma le bastava pensare che gli altri avessero lasciato casa con l'immagine della donna fiera e del figlio ingrato. Il cliché la appagò, dalla rappresentazione era passato un messaggio importante. Il resto erano cazzi nostri, come nostro è l'amore.
Io di giorni rovesciati così ne ho vissuti tanti. Ogni volta che misuro i passi sulle scalette che mi portano sulla scena mi sento pronto alla satira più insolente. Poi, puntualmente, la satira da insolente si fa insolvente, nel senso che non paga. Ed è proprio a battute simili che la gente non ride, come non ho fatto ridere voi.
Però sul palco ci sto bene, anche quando accuso i cazzotti delle smorfie rigide degli spettatori. Perché, a dirla tutta, le battute che faccio spesso non le afferro nemmeno io. Ma senza il pubblico chi se ne sarebbe accorto?
E se non ci foste stati voi, come l'avrebbe capito mia madre che quella era solo una brutta battuta?


mercoledì 4 settembre 2013

Quando un uomo è Franco


Sono Franco, e faccio il mestiere più antico del mondo. Forse il secondo.
Faccio il bagnino, da tanto. Non ricordo l'anno, ma posso dirvi che se Mosè aprì le acque, fui io a dare il permesso di attraversarle. E se non mi credete, leggete Focus.
Quest'estate vi ho spiato, dal mio buco d'aria rubato all'altezza di una torretta grigia e corrosa estorta ad una spiaggia foriera di ore interminabili come fuochi di camino invernali.
Ti ho guardato, signorina ucraina, mentre rubavi il cuore del meccanico napoletano finalmente in ferie, e so tutto ciò che di degenerato ha pensato di te la tua nuova famiglia, che per quante risate e abbracci potrà regalarti, non accetterà mai questa bionda irrefrenabile amante di una vita che si trasforma repentina in scuola di gioie. Prova sincera di un mondo che il bene non sa nemmeno com'è fatto, e che a volte lo prova stupito neanche fosse un accordo ritrovato a distanza di anni dall'ultima strimpellata.
Ti ho guadato, padre, dormire nell'attesa che, da un ombrellone all'altro, la tua bambina si scoprisse sola e matura e fingesse di cadere per sentirsi addosso quell'apprensione paterna che rende figlia ogni piccola donna. Cercando lei il tuo sguardo, e tu le sue mani, come un desiderio ricambiato destinato ad essere spazzato via dalla centrifuga del tempo che cresce.
Ti ho guardato, mamma, immaginare il fiero campione protagonista della magnificenza del tuo utero districarsi quasi quarantenne, a distanza di chilometri dal tuo lettino, in un falò di cassa integrazione e scadenze chine sul collo come gocce di sudore acido. Figlio ma non più, operaio ma non abbastanza, uomo ma non troppo.
E ho guardato te, ragazza mia, sulla sedia della tua camera a dare le spalle alla scrivania e a fissare un vuoto a caso nei pezzi di cielo disegnati sulla finestra, in licenza dalla concentrazione, per arrovellarti il cervello nel tentativo di trovare modi per spegnere il tasto del mio ricordo, ignorando dove sia perché non t'è mai interessato saperlo.
Vi ho visti andare via, tutti, da un giorno all'altro, lasciandomi a fare da guardia a questo mare che vorrebbe anch'esso ritirarsi, ma proprio non ce la fa. Ed io, senza dire nulla, resterò a guardare il suo e i vostri ritorni.
Tornerete a contenere errori e successi in bagni di profonda solitudine, e poi mi ignorerete di nuovo. Ma io non mi muovo. Perché amo così tanto il mare e il libero arbitrio, che non vorrei li usaste per fare cazzate.