giovedì 21 ottobre 2010

Reportaggi - "Il niente"

Una volta mio padre mi disse: "qua a Fogg' n'g st'c nint!..". Un'altra volta mio zio accennò: "vattinn', che a Fogg' n'g st'c nint!..". Poi fu la volta di un mio amico, che rivelò: "cosa pensi possa darti questa città?! Sint a me: scappa. A Fogg' n'g st'c nint!..".
Insomma tutti, come avrete facilmente compreso, insistevano sul solito dato, poco statistico e molto pratico, che a Foggia vi sia ben poco, per usare un eufemismo. Un leit-motiv per altro da sempre sottofondo di circa il 90 percento dei discorsi dei miei concittadini, i quali attribuiscono a quest'atavica e inqualificabile carenza (appunto "n'g st'c nint!..") la causa prima e ultima di tutti i loro problemi: dai soldi che sono sempre pochi, ai disguidi familiari, passando per un'eccessiva fila nella sala d'attesa del medico, e finendo con quella pizza un po' bruciacchiata mangiata in un locale che tanti avevano lodato. I soliti drammi esistenziali, diciamo.
Tralascio poi per amor del breve, e per non sperdermi nelle lande desolate del superficiale e dell'irrazionale, tutta la riflessione sul paradigma "n'g st'c nint" quand'è applicato al calcio. E in particolare alle prestazioni del tanto bistrattato Us Foggia, squadra locale dai colori rosso-neri, famosa per avere uno stuolo di sedicenti tifosi che riescono a pontificare della totale assenza di schemi tattici, della malvagia caratura tecnica dei giocatori della rosa, e della scarsa attitudine all'impegno degli stessi dopo neanche tre minuti del primo tempo della prima partita di campionato. Al grido naturalmente di: "quist'ann n'g st'c nint!..".
Generazioni di filosofi, antropologi, studiosi della psiche e pensatori vari hanno speso anni ed energie preziose per tentare di capire cosa diavolo possa mai figurarsi in quel "nint" così tanto evocato dalle insaziabili anime di questa mia città. Ma non c'è stato nulla da fare. Anzi, mo 'u fatt (ossia, "casca a pennello"): "n'g è st't nint da fa'!"
Malelingue minoritarie tendono semplicisticamente ad identificare, in quest'ormai abusata perifrasi foggiana, uno sforzo di tensione verso una delle forme più espressive della cosiddetta "arte del lamento". Un'ipotesi che obiettivamente non mi sentirei di escludere a priori. Ma allo stesso modo sarebbe errato ritenere del tutto irrilevante il potenziale principio metafisico sotteso al concetto di "nint". Qualcosa in cui comunque non intendo per ora imbattermi, non avendo le capacità adatte. E neanche il tempo, sinceramente.
Ma spero in fin dei conti di aver mosso in voi, foggiani e non, filosofi e non, lamentosi e non, un piccolo sussulto di curiosità tale da produrre qualche domanda in più sulla reale essenza di questo piccolo grande mondo chiamato "nint". Alla prossima.


lunedì 11 ottobre 2010

Gocce di poesia foggiane - Atto IV





FRENA E FRANA


Chiov'.
Sott a stu ci'l nir'
ascenn'n i p'nzir,
anzim' a st'acqua lord che n'n serv a na lir.

Angòr chiov'.
Da sti nuv'l strachien'
d nirv e d velen',
che serv'n p fa appr'zzà 'u seren'.

Madonn', chiov'!
Sta piogg' che t'abbagn
è semp 'a stessa lagn,
e 'u timp pes quant 'e na lasagn.

Appost, chiov'.
Ma mo' tu t'e scaff't int 'a capocc'!..
P'cchè non t vij' a mett sott 'a docc'?!
Almen' là t puj' ammuccià sti gocc',
che tin d'int all'ucchij' e sop 'a facc'.
E' inut'l che tint d fa 'a rocc'.

Lass che chiov', e n'g rompenn 'u cazz.



sabato 9 ottobre 2010

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo II (parte 1a)

 - SEDOTTA E ABBANDONATA - 
(parte prima)


Succede una sera.
Succede che per Apollonio è un magnifico martedì sera, tiepido come una di quelle vecchie serate di fine agosto; che sono poi passate a rappresentare la settembrina presa di coscienza della fine dell’estate; e che negli ultimi anni si sono addirittura catapultate nel bel mezzo del mese di ottobre, prendendo a scalciar via l’autunno come neanche si farebbe col più ignobile mariuolo trovato in casa propria a rovistare tra l’argenteria. Cacciato come un ladro da casa sua: triste vicenda quella dell’autunno, ennesima vittima dello sciacallaggio; che è il vero fattore dominante di quest’epoca in cui, al primo segnale di debolezza dato, ci si ritrova ad essere assaliti e poi sbattuti su un marciapiede a leccarsi le ferite.
Ma dicevamo della serata di Apollonio. E’ sempre martedì, l’aria è sempre fantasticamente tiepida, e tutto attorno il mondo gira semplice e divertente, proprio come piace a lui. Girano cocktail, si ride, si pensa a non pensare, e in questo festival di maschere apparentemente rilassate Apollonio fa davvero la parte del leone. Ed il leone è l’unico che può tenere testa agli sciacalli, a meno che essi non siano davvero tanti e che il leone non sia davvero solo; quindi come vedete tutto torna.
Per questa gente Apollonio è una sorta di effetto placebo. Le sue sono punture di demenziale allegria che non servono a un cazzo, che non rilasciano nulla, se non un superfluo senso di temporanea eccitazione. E lui, Apo, sa di essere la finta cura a un ignoto malessere, sa che per gli altri esiste soprattutto in funzione di quel momento, ma non se ne preoccupa. Ognuno nel mondo dovrebbe avere un ruolo, e il suo è di divertire. Assistere quotidianamente alla fenomenologia della risata sui volti delle persone: occhi che si spalancano; zigomi che prendono vita; e labbra che iniziano a schiudersi proprio come l’arco che si appronta a scagliare la freccia. Così parte la risata, come una freccia. Perciò non si dovrebbe mai ridere ad altezza d’uomo; né davanti, né di dietro. Qualcuno potrebbe farsi male. Fatto sta che, dopo lo sforzo comico, è Apollonio a essere tranquillo. Veder montare il sorriso sul viso altrui è il suo effetto placebo. “Sono ancora vivo”, pensa.
E quella serata? Continuo a metterla da parte e a riprenderla, a mio piacimento, senza alcun riguardo, come si fa con quelle persone che si crede di possedere e di cui si sfrutta cinicamente la vicinanza. Forse non lo faccio di proposito, ma lo faccio. E tanto basta per capire che sto sbagliando, e che volontarietà e involontarietà sono soprattutto accessori buoni su cui fare affidamento al momento della condanna. Ma non prima. Prima c’è che ho sbagliato. Punto.
Allora torniamo alla serata, al divertimento, e ad Apollonio che ha un altro motivo per stare bene. Questo motivo si chiama Camilla: capelli neri, equamente divisi ai due lati della faccia, che scendono fino alla fine del collo; zigomi corposi, ma eleganti; labbra sottili; e un metro e ottantacinque centimetri di vitalità distribuiti su un fisico che si può definire giusto. Carina questa Camilla, e anche simpatica. Spensierata. Ad Apo piace tanto. Quella sera decide che è proprio giunto il momento di provare a conoscerla meglio, qualsiasi siano le coniugazioni possibili di questo verbo. I due bevono insieme, chiacchierano, scherzano con tutte quelle cazzate primarie che sono gli unici tram che possono portare due conoscenti, semi-sconosciuti, dalla periferia dei rapporti di circostanza al centro di una relazione più importante. Un percorso obbligato, insomma. A meno che i due non siano Charlize Theron e Johnny Depp.
Infatti non sono loro, ma soltanto due stronzi qualunque che hanno deciso di giocare a scambiarsi delle sensazioni. E poiché si parte solo quando in macchina ci sono tutti, in questi casi iniziare vuol dire fare già metà del viaggio; l’altra metà poi servirà a capire dove si può arrivare. Ma da qualche parte sicuro si arriva.
Sempre però che non sorgano intoppi inaspettati. E dov’è Lepido?...

(continua..)

giovedì 7 ottobre 2010

Reportaggi - "I portoni"

Si esce per Foggia. Si esce con la consapevolezza che tutto non è, ma tutto può essere. Il portone dietro si chiude, e davanti a te si spalanca una città che è un mistero.
Aspettate però, torniamo un attimo indietro. Perché io Foggia la conosco, e allora devo controllare una cosa: ma il portone si è chiuso per bene? Come non detto: non s'è chiuso un cazzo. Ecco il male, anzi uno dei mali incurabili di questa città: i portoni. Com'è quel proverbio, "si chiude una porta e si apre un portone"? Beh se siete a Foggia dimenticatelo, ché tanto i portoni sono già tutti belli che spalancati; anzi, diciamo solo spalancati.
Mi emoziono spesso a leggere quegli avvisi disperati con su scritto: "SI PREGA GENTILMENTE DI CHIUDERE IL PORTONE". Efess', è 'na parol'!..(per chi legge da Oltretavoliere equivale a: "Eh, facile a dirsi!") ..Mi viene quasi da piangere pensando alla buona fede del pover'uomo autore della scritta, ma mi viene anche da pensare che forse avrebbe fatto prima a chiedere, con la sua proverbiale gentilezza, di chiudere il mondo fuori.
Chiudete il mondo, per piacere! Coi portoni c'abbiamo provato, ma niente da fare.
Portoni che ti scattano dalle mani per chiudersi a saetta, neanche se le molle che li regolano fossero state costruite da Robin Hood in persona. Sono quelli che vediamo perennemente aperti, tenuti fermi con mezzi di fortuna. E di fortuna ne serve davvero tanta, perché se il portone scappa poi sono cazzi: si chiude con la stessa velocità con cui si chiudono le indagini su Berlusconi, e scoppia un boato da bombardamento della seconda guerra mondiale che lo sentono fino a Napoli e pensano che il Vesuvio si sta risvegliando.
Opposti a questi ultimi, ci sono i cosiddetti portoni "al rallenty": sono sempre sul punto di chiudersi, ma quel punto purtroppo non lo oltrepassano mai. Sono i portoni del domani, prima o poi si chiuderanno. Mentre tu sei ancora lì che aspetti, pensando: oh, mò facim' nott'!..(per chi chiama da fuori Foggia sarebbe: "su muoviamoci, che la vita deve andare avanti!")
Intanto la notte arriva davvero. E ti coglie svagato e fesso, perché tu sei rimasto lì avendo seguito i dettami di una scritta che recita: "SI PREGA GENTILMENTE DI ACCOMPAGNARE IL PORTONE". Hai pensato che se qualcuno s'era addirittura premurato di scriverlo, forse quel portone aveva davvero bisogno di un accompagnamento. Chissà di quale grave malattia soffrirà? Forse è tanto solo, tanto vecchio e tanto stanco? Finché non arriva un signore indistinto a dirti: "Babbiò, so tre or' che sti annanz a stu purton': che è fa, t'è luà da nanz' che st'c na fil' d gent' che adda passà?!"..(chi parla un altro italiano direbbe più o meno: "Stranissimo individuo, potrebbe andare a fare qualcosa di utile per la società piuttosto che stare a occupare l'ingresso di questo palazzo?!").. Deriso e sconsolato ti allontani. Pensavi di fare una cosa carina. Maledetti portoni, la prossima volta col cazzo che vi accompagno, pensi.
Rotti, coi vetri infranti, le maniglie mancanti, neanche si chiudono: ecco i portoni della mia città. Inutili, come tanto altro. Alla prossima.

venerdì 1 ottobre 2010

Il paese che ho in ventre


Il mio paese è un paese dove puoi dire che i cittadini della capitale sono dei "porci". E senza scherzare. Ma chi ti sta accanto crede che quella sulla tua faccia sia una smorfia divertita. Invece sono i segni dell'ictus. Poi i cittadini della capitale s'incazzano, e tu rispondi "Ohh, tanto casino per una semplice battuta!?", e indichi a tutti di vedere la risatella che sfugge dal tuo volto. Insomma alla fine t'ha salvato un ictus: che culo!

Il mio paese è un paese dove un parlamentare dice al capo del governo che è uno "stupratore della democrazia", mentre il capo del governo appella il parlamentare come "pazzo". Ora, se dovessi seguire la legge di vita del bipolarismo, direi che delle due frasi una è vera, e l'altra no. Fatto è che in entrambi i casi sarei molto preoccupato. E non posso neanche pensare che siano tutte e due tesi da scartare, perché altrimenti potrebbero anche essere tutte e due vere....oh cazzo!

Il mio paese è un paese dove si attacca ferocemente chi associa il mio paese al luogo comune della mafia. Però se vieni condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, allora no: nel mio paese non ti dice nulla nessuno. Perché la mafia farà male, ma fanno ancor più male i luoghi comuni..

Il mio paese è un paese dove i principali uomini del principale partito di sinistra esultavano per aver acquistato delle banche. La famiglia del capo della destra è partecipe dei consigli d'amministrazione di molte banche. Il partito leganordista-secessionista-antimeridionalista-pallista parla anch'esso ogni giorno delle banche. Però un povero stronzo per avere un prestito o aprire un mutuo deve rivolgersi direttamente al padreterno, che è notoriamente sprovvisto di amicizie nel gotha della finanza..

Il mio paese è un paese dove la gente si lamenta. Si lamenta perché ci sono troppi ricchi, troppi poveri, troppi stranieri, troppi musulmani, troppi rumeni, troppi romani, troppi razzisti, troppi poliziotti, troppi ladri, troppi ultras, troppi gay, troppi impicci, troppi inciuci, troppi laici e troppi preti. Però questa gente spende, fa i debiti, sfrutta, denigra, si appropria indebitamente, picchia i propri parenti, violenta le proprie donne, accoltella i rivali, paga tangenti, chiede favori, sputa bestemmie e sevizia minori. Odia i politici e vota.

Il mio paese è un paese dove la gente si lamenta di se stessa. E anch'io.