sabato 17 giugno 2023

Quando il buio si avvicina

Al solo pensiero di potermici riavvicinare, la puzza di vecchio, di chiuso, di stantio mi ha assalito le narici come un gatto sbucato dal buio all'improvviso.
Cosa ci fosse qui dentro, iniziavo a non ricordarlo più nemmeno io.
Tanti anni fa ci venivo a lasciare scatoloni di paure, timidezze, illusioni, convinzioni finite imballate e nascoste per trovargli un riparo dalla polvere del tempo che passa e smaterializza. Dissacra. Sminuisce.

Chi ero io? Chi eri tu? In questi contenitori ci sono ammassate così tante possibili personalità, che sembra davvero improbabile poterne trovare una reale. E si finisce come a sfogliare i vecchi album di fotografie, o Wikipedia, o YouTube: perché sono venuto qui? Cosa stavo cercando? Chi stavo cercando?

Se chiudo gli occhi, però - tanto qui sono così solo da sentirmi al sicuro - riesco quasi a ricostruire un buon numero di quelle notti salvate da questo stanzone, e dall'ingenua pretesa di riempirlo per fare ordine o per darmi un tono davanti al grigio orizzonte di un domani che avrei voluto divorare ma nello stesso tempo rinviare all'infinito. Sempre fuori tempo io e lui, come gli autobus di Roma e chi li aspetta, come il piede d'appoggio dei vecchi e le scale mobili. Con la regia di una musica fidata a dettare i ritmi, luci sempre le stesse e pochi oggetti di scena.

Una recita, anzi un monologo. Qualche spettatore, dalle poche finestrelle in cui capitava di avvertire occhi interessati - anche loro sempre gli stessi -, comunque abbastanza per scatenare insieme accenni d'ansia di prestazione e lampi di senso di responsabilità. Vediamo come metti a posto. Vediamo che ti inventi stasera.
A metà del lavoro, puntualmente, ero bloccato senza aver combinato granché, e rinnegavo quella scelta, quel luogo, gli ultimi 5 anni di vita, l'alfabetizzazione, insomma me stesso. Poi, scavallato il punto più alto di crisi, iniziando a intravedere come in un miraggio le vicine e sicure sponde del fallimento, sentivo la pressione scivolarmi via dal corpo, sciogliendomi in movimenti agili e ripetuti, osavo, azzardando acceleravo, mi perdevo eppure ritrovavo sempre la via, o più verosimilmente, accorgendomi di non avere altro sbocco che un campo desolato, ci piazzavo le mie cose e la chiamavo destinazione.

Nonostante tutto, ogni finale mi pareva l'impresa più credibile mai compiuta nella vita.

Questo ho fatto stasera. Ho aperto, ho sfilato le ragnatele, ho puntato dritto a un paio di scatoloni. Aprendoli e rovesciando tutto fuori.
Sarà poco, saranno soltanto parole. 
Non sono mai la soluzione, ma se ce n'è una - per me - è da quei binari che passa.



domenica 31 gennaio 2021

In Australia anche i laghi uccidono

- Ma hai visto quanta neve?!
- Non mi frega un cazzo, ti ho detto!
- Ho freddo.
- Anch'io, porco questo mondo e quello che verrà dopo, anch'io! Cosa credi?
- Eh ma non lo dici mai.
- Oh mio Signore! Tremo, non lo vedi, sto tremando, ecco perché non lo dico!
- Devi essere uno di quelli che le cose è meglio non dirle perché poi ci pensi e fanno più paura.
- Sì, cazzo, sì! L'hai capito finalmente.
- Eh ma non funziona così.
- Così come? Che significa?
- Non è che non parlare di una cosa te la fa dimenticare.
- Ma tu chi cazzo sei? Cosa vuoi? Siamo solo capitati nella stessa fila per una tazza di brodaglia!
- Non lo capisco perché tu non vuoi parlare con me.
- Parlare di cosa?
- Di tutto, di niente. Della neve. Hai visto la neve? Mai vista una neve del genere.
- Tu devi essere pazzo: non c'è altra spiegazione! Mio Signore mi stai punendo più di tutti gli errori che avrei potuto compiere in una vita. Morirò assiderato in questa prigione che non ha nome, in mezzo a una folla di disperati, e sto passando le mie ultime ore con un folle.
- Posso raccontarti una storia? Ti piacerà, giuro.
- Fa un freddo cane, ho voglia di piangere e non lo faccio solo perché ho paura di gelarmi il volto con le lacrime. Sono stanco. Non mi piaci. Racconta quella che vuoi.
- Hai presente quel proverbio "paese che vai, pericoli che trovi"?
- Sì, e sono abbastanza sicuro che non è come l'hai appena detto.
- Ok, non conta. Senti: mio cugino viveva in Australia qualche anno fa, un giorno che ci scambiavamo dei messaggi mi manda in chat la foto di questo lago rosso, non me lo ricordo il nome di questo lago ma si trova in un'isola australiana ed è rosso come il sangue, non scherzo, c'è questa foto dall'alto che fa impressione, attorno c'è tutto il verde degli alberi e in mezzo questo lago rosso, sembra la ferita di una foresta sanguinante, dicono che non puoi entrarci perché si mischia con il tuo sangue e lo fa più salato, muori in meno di un mese, ti circola un lago nelle vene, capisci, qualcosa di mostruoso, dentro non c'è nemmeno un pesce, neanche il più maledetto, solo gli scienziati si sono ingegnati in qualche modo che prelevare un po' d'acqua e metterla in un contenitore trasparente: è diventato tutto rosso!
- Ovvio, se il contenitore era trasparente e l'acqua è rossa.
- Ecco, non è importante. Questo lago non si può visitare, tutta l'isola in realtà non si può visitare, solo dall'alto, in elicottero, sai che effetto deve fare, guardare l'oceano blu e in mezzo un cerchio verde con al centro questa forma strana tutta rossa, che non penseresti mai è un lago, sembra una lingua, una lingua di sangue.
- Un lago rosso?
- Un lago rosso! Non potevo crederci, ma giuro che è vero.
- Dai... Finalmente tocca a noi, forse riusciamo a mangiare qualcosa.
- Certo fa davvero freddo qui.
- Già. Si congela. Comunque no, io una neve così non l'ho mai vista.

giovedì 28 maggio 2020

Lettera aggiornata di Luigi Pinto allo Stato.

Salve. Ho 71 anni e mi chiamo Luigi.

Sono alto, abbastanza, e i capelli ormai mi si sono quasi tutti imbianchiti. Però li porto bene, sono lunghi il giusto.
E ad Ada piacciono. Ah si, scusate, non vi ho presentato Ada: è mia moglie, siamo sposati da 47 anni, e 47 anni sono tanti se tutte le albe e tutti i tramonti portano lo stesso sentimento. Voi non potete immaginare quanto è bello sapere di esserci. Io la vedo lì, ogni giorno, da quando avevo poco più di vent'anni, ed ogni giorno noto in lei qualcosa che il giorno prima non immaginavo. Ieri, ad esempio, l'ho vista uscire di casa e ho registrato che, per arrivare all'uscio, passa in mezzo ai due specchi dell'ingresso guardando sempre prima quello di destra e poi quello di sinistra. Sempre.
Niente di eccezionale, note a margine per gente che si ama. Non potrà mai stupirvi un dettaglio simile se lei, le sue mani, la sua bocca non fossero l'unica cosa che cercate da quando avete memoria dell'esistenza della donna. Ringrazio il destino che me l'ha fatta conoscere, e che mi ha permesso di amarla, finora.

Sono andato via dalla mia città, da Foggia, dopo il diploma. Triste di dover lasciare la mia famiglia e la mia casa, ma quando sei nato in una famiglia proletaria e vuoi soddisfare certi bisogni o solo stare al mondo, beh, la strada è segnata. Serve un lavoro, per essere indipendenti. Così di mestieri ne ho fatti tanti: operaio in uno zuccherificio, minatore in Sardegna, quindi impegno e buona sorte mi hanno portato la prima cattedra in applicazioni tecniche presso una scuola media di Rovigo.
Ho girato tanto, davvero. Dopo Rovigo, sono partito per un istituto di Ostiglia, in provincia di Mantova. Mi ricordo la centrale termoelettrica, con quelle torrette disturbanti: enormi caramelle gommose piazzate a svettare su un paesaggio dolcemente anonimo.

Quindi mi hanno trasferito a Siviano, una frazione del comune di Monte Isola, in provincia di Brescia. Si affaccia sul lago d'Iseo. Un posto bellissimo. Come avrei potuto non restare qui? L'umidità non dà tregua, questo è vero. D'inverno il freddo è pungente come una fitta continua, e d'estate l'afa ti pianta un mantello sulla pelle come se volesse rapirti. Ma le viuzze strette in salita, dove non riesci nemmeno a ipotizzare la strada che avrai davanti dieci metri dopo, le scale piene di persone variamente operose, e poi quelle pietre che stanno bene su tutto, sempre uguali, sempre le stesse, che quasi ormai me le ricordo una per una: tutto qui mi è familiare, vicino.

Amo mia moglie, mia figlia, questo paesino, i miei problemi. C'è molto che non va, ma non lo dirò a voi. Piuttosto che lamentarmi preferisco urlare, per quel che posso alla mia età.
Ero, sono e morirò antifascista. Non voto il Pd, non mi merita. Come non ho mai desiderato di avere a che fare con i populisti, con chiunque blaterasse solo di "casta", di Berlusconi, di corrotti e di quell'eterno ricorso alla legalità che puzza di fascismo latente. Io sono di sinistra. E non scelgo nessuno, adesso non ce la faccio.
Spero che le cose cambino, spero che ai ragazzi venga data la possibilità di dimostrare il proprio valore. Spero che possano avere una storia simile alla mia.
Che poi non è proprio la mia, ma quella che avrei voluto, o forse anche solamente potuto avere. Una delle tante, se solo il 28 maggio di quarantasei anni fa, a Brescia, in piazza della Loggia, durante un comizio antifascista, non fossi saltato in aria. Avevo 25 anni.

Quasi tre anni fa ho scoperto che della mia morte, e di quella di altre sette persone, hanno colpa Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Neofascisti, non ex di Ordine nuovo - perché di essere quella roba là non si smette mai. Non è tutto, però. In realtà ci sarebbero altri responsabili, ma è ormai impossibile individuarli: sono morti loro, o è morto chi avrebbe potuto dimostrarne la connessione all'attentato.
La sentenza parla infatti di 
«intrecci che hanno connotato la mala-vita, anche istituzionale, dell'epoca delle bombe». E poi parla di «opera sotterranea», di «coacervo di forze». Non ci vuole una mente geniale o complottista per capire che tra le strutture di governo qualcuno conoscesse, permettesse e indirizzasse le attività stragiste. Non serve attendere il disvelamento dei segreti, basta esserci morti dentro.
Ma questo qualcuno è ormai nessuno. E se nessuno ha ordinato o lasciato innescare quell'ordigno, significa che quell'ordigno non è mai esploso. Significa non c'è stato alcun attentato. Significa che non ci sono assassini e quindi che non esistono nemmeno i morti. Allora sono vivo. Si, sono vivo.

Grazie democrazia, grazie mio amato Stato: è solo merito vostro se posso dirmi resuscitato.

Tuo,

Luigi Pinto.


(Post pubblicato per la prima volta ad aprile 2012. Modificato, in parte, oggi 28 maggio 2020.)