sabato 18 aprile 2015

Pensavo fosse odio, invece era una trasferta a Lecce. (Lettera di scuse a dei foggiani)


Non tutto scivola addosso.

C'è qualcosa che resta, si sedimenta, lascia tracce indelebili sotto la pelle, e riemerge fastidioso a provocare irritazione anche a distanza di anni.
Ci sono fatti, situazioni oggettive e precise, per cui non esiste il lavoro di pulizia del tempo. Nessuna prescrizione, nessuna delega al ricordo in nome di un futuro già scritto.
Come le condanne postume, che condanne non sono mai perché la vera giustizia non vive fuori dalla vittima ma nasce nel suo cuore, proprio mentre sta subendo il torto, e lì dentro si coltiva e cresce per l'eternità, trovando sbocchi inattesi.



Così domenica io a Lecce non ci sarò, perché non potrò esserci.
Non ho i soldi e non ho modo di organizzarmi, ma ancor di più non ne ho diritto. Non sono autorizzato ad assistere ad una partita di calcio della mia squadra del cuore, insieme ai fratelli, le sorelle, i padri, le madri, le nonne, i nonni, i nipoti, i figli e tutti gli stronzi che continuerebbero ad averne voglia.
Quando è partita ufficialmente l'operazione "tessera del tifoso", sapevo che avrei ridotto di molto i miei viaggi per il Foggia; sapevo che tutto non sarebbe stato più come prima e sapevo che avrei dovuto fare ricorso a tanta immaginazione per sperare il ritorno di tempi migliori.
"Ma fattela sta cazzo di tessera", mi è stato detto un'infinità di volte, "che è solo una carta in più delle mille che già hai!": in fondo, non appartengo a gruppi organizzati, non ho mai avuto il vincolo stretto di fare patto con i miei compagni di gradoni. Il mio compagno è sempre stato la Curva, tutta; o almeno tutta quella devota al sostegno incessante, al colore, al boato, al divertimento. Al vedere la partita dopo la partita, in tv.



Io, senza i fanatici e testardi ultrà che per anni m'hanno incantato col loro modo eccessivo di stare allo stadio, dentro quella curva non ci avrei mai messo piede. Ed ora non sarei dove sono adesso, seduto alla scrivania che è quasi l'alba del mio terzo o quarto weekend da disoccupato, concentrato davanti al pc per scrivere di un amore che si è fatto rabbia, smarrimento e poi rancore.

Non si tratta solo dell'idea di autoescludersi a priori dalla possibilità di assistere ad una sfida di terza serie "tra nobili decadute", si sarebbe detto un tempo, nonché duellanti pugliesi in un derby che torna dopo diversi anni; e né soltanto dell'impossibilità di sostenere la mia maglia in una gara delicata che vale le ultimissime chance per sperare nella promozione.

Qualcosa di più: è il sapere che c'è invece chi ci sarà, domenica, al Via del Mare. Amici, conoscenti, rossoneri come me, col biglietto pronto e i pullman preparati da Foggia, in tutto si parla di 200 presenze circa, neanche miseria di questi tempi... E io?! Io dove sono? Perché non sarò lì, insieme a tutti gli altri? Perché ci è stata tolta, e ad altri più di me, la libertà di partire? Perché non ho mai potuto nemmeno pensare di farla questa trasferta?

Quando ho deciso che il mio "no" alla tessera sarebbe stato inderogabile, finché almeno il cuore e la testa avrebbero retto la decisione, ho immaginato che il passo successivo sarebbe stato solamente uno: basta tifo, basta pallone! Ma prima, già lo sapevo, avrei vissuto anch'io la fase dell'odio verso i tesserati, verso chi può partire e ancor di più verso chi potrebbe, e non lo fa. Questa fase è arrivata con ritardo, in fin dei conti, ma è poi esplosa, silenziosamente, come i gemiti di quando stringi i denti.

Così, pur consapevole di quanto immaturo e stupido sia ciò che provo, vengo travolto dal fastidio e da un'invidiosa stizza ad ogni immagine o parola dei foggiani mentre si preparano per essere domenica sugli spalti a Lecce. Anche se miei amici, anche se Pasquale e Daniele. Anzi, soprattutto loro. Perché il risentimento vero conta solo nemici.

Ed è per questo che ora vi chiedo: perdonatemi, fratelli, se vi avrò odiato! E portatemi una vittoria.
Avanti Foggia!

sabato 11 aprile 2015

Fratello dove sei? (O della scoperta del settimo senso: l'autopercezione)

FOGGIA - CASERTANA o qualcosa del genere

A luci spente. Allungo la mano. E trovo una sciarpa, retta all'estremità da un'altra mano, sempre mia. Non vedo cosa c'è scritto, ma so dove siamo, perché resta illuminata una parte che illumina tutto. Una parte per il tutto. Una sineddoche: la parte è una striscia di campo, il tutto è quello che ho fatto in questi 27 anni quasi ventotto.
In verità non so di preciso cosa sia accaduto dal 3-0 alla Lucchese di Orrico in quella domenica del '91 ad oggi. So che il calcio è diventato nel frattempo un malato terminale; so che i tifosi tifano più a casa che allo stadio; so che dovrò mandare un inutile curriculum non appena finisco di buttare già ste righe; so che ho cambiato curva; so che ho imparato a lasciare e ad essere lasciato; so che non ho mai imparato davvero a farmi la barba; so che ho due nipoti, e giuro non avrei mai immaginato potesse essere una cosa tanto dolce; so che mi fa male la testa, quasi ogni quindici giorni, perché quasi ogni quindici giorni immolo quel che resta di me stesso alla causa meno nobile che esista. Perché "chi te lo fa fare"? Perché 22 coglioni che corrono appresso a una palla. Perché come fai a pensare al calcio? Perché siete rimasti quattro gatti. Perché non vedi che te la fai coi delinquenti? Perché il calcio a Foggia è morto.


A luci spente, ve lo dico: siete morti voi. Tristi approfittatori d'infelicità. Logorroici speculatori del disagio altrui. Cacacazzi. Anzi, no, non ve lo dico. Lascio cantare il buio, dalle cui gole rauche e alcoliche provengono canti improvvisati misti a ululati e battimani fuori tempo. "Alè alè oh oh... 'A matin n's vonn avzà... Alleluja Alleluja... Tu non sai cosa ho fatto quel giorno... Che bello è quando erutta..." ah no, questa non si può dire! È discriminazione geografica, geologica, sociologica, roba da 41-bis insomma.
Loiacono col ginocchio, dicono, hanno detto a fine primo tempo, poi ho riferito pur io, dando il probabile per assodato, e rimettendolo in circolo come certo, ché tanto non interessa a nessuno né il chi e nemmeno il come. Interessa solo l'aria. Quella dentro la palla, quella fuori dalla palla, quella che muove la rete, quella che riporta il boato, quella scaraventata dall'esultare scomposto, quella che ti solleva i piedi da terra.
I playoff, le Madonne invocate, Verile, il fallimento, i soldi che n'g stann, quella buglia della Merletti, De Zerbi resta, i diffidati, Mario Facco e mi gratto, Campilongo, il borghetti, le "spaccate", Sarno e Gigliotti squalificati a Lecce, la Serie B che non vediamo da diciassette anni, le donne: tutto in un soffio. Un pugno al cielo agitato meccanicamente neanche fosse un cric che ti solleva l'anima per portartela nello stato più vicino a quello che si usa definire "un sogno".


A luci spente, in camera mia, ho appena finito di rivedere la partita sul pc; anzi, di vedere, ché mica si guarda granché dal fosso di persone in cui andiamo a ficcarci noi che, più che assistere alla partita, diciamo che la realizziamo, per confrontarla poi con l'avara precisione del racconto di cronaca.
A luci spente, perché non ho bisogno di vedere dove sono. Lo so, lo sento. Sono dove ci si arrende solo all'evidenza, e spesso neanche a quello. Sono nel posto giusto, sono dentro di me, sono a casa. E pure quasi nei playoff.