mercoledì 21 luglio 2010

Rivoluzioni di piazza, rivoluzioni di terrazza

Morte alla pioggia.
Morte al cielo, che caga piccole palline di grandine pesanti come delle polpette di pietra. E mi spacca le piante, e mi spacca le tende, e mi spacca i maroni.
Morte alle nuvole colme di pioggia, che pare quasi seguano l'andamento dei miei malumori. E non arrivano mai quando sono felice, sovrappensiero, sereno, e potrei sbattermene di uno scroscio d'acqua grigia. No, arrivano quando ho la vita appesa; quando conto i giramenti...dei miei pensieri; quando la pesantezza ce l'ho già in testa e gradirei non vederla riprodotta nei segni di madre natura.
Morte al rumore maledetto e incessante delle gocce d'acqua, antipatiche sorelle forti del dono dell'inopportunità. La vostra guerriglia è un continuo lanciarsi contro le strutture costruite dall'uomo, barriere artificialmente poste dagli esseri umani per fingersi padroni di un mondo che in realtà può solo inchinarsi alla superiorità delle forze preesistenti della natura.
Morte al vento, che anticipa la storia e da' il segnale di battaglia con il suo soffio che si diffonde intimidatorio in ogni minimo spazio gli sia concesso.
Morte alle sponde, create dall'uomo per esercitare il potere primario della costruzione, e piegate alla forza dirompente dell'acqua che le seduce e le sfrutta per arrivare dove in realtà da sola non sarebbe mai arrivata. E scopri che il riparo non esiste, esiste l'illusione del riparo, la rappresentazione, ma ci sarà sempre qualcosa che si bagnerà.
Morte ai buchi, che facilitano l'acqua. Piccole spie, traditori del sistema di difesa, pezzi di mondo che si son venduti alla natura come prostitute di un mondo materiale ormai privo di sani principi.
Morte a me, che mi trovo sotto a tutto questo. Colpevole di aver osato tanto, di aver sfidato la rabbia del cielo che tutto guarda, qualcosa sopporta, e qualcuno punisce.
Perché serve sempre un capro espiatorio. Proprio come accade in tutte le rivoluzioni di piazza. Solo che stavolta si trattava di una terrazza, quella di casa mia..

domenica 18 luglio 2010

Gocce di poesia - Atto II

DENTRO O FUORI


L'ultima volta io non c'ero,
perché il mio io era fuori di sé.
E quello stupido pensiero
restò pensiero dentro di me.

L'ultima volta persi i sensi,
persino il sesto, che neanche c'è.
Mi risvegliarono i rimorsi,
o forse i morsi a quel buon bignè.

L'ultima volta feci ritardo,
tardando troppo seduto al bidet.
Di quelle feci non ho ricordo,
ma vi rammento che c'era il bignè.

L'ultima volta fui allontanato,
l'onta fu serva d'un vecchio cliché:
mi definirono "l'imbranato",
sbranato dai miei pensieri e dai se.

L'ultima volta tornai distrutto,
e non conclusi i miei versi perché,
più che un poema, avrei fatto un rutto,
gonfio com'ero d'amore per te.

giovedì 15 luglio 2010

Volevo solo dirti grazie


Avrà storto il muso un'ultima volta prima di dire: "ok, ci sto".



Come fanno gli indecisi. Ma in lui non c'è indecisione. La sua smorfia è solo un movimento innaturale per risvegliare i muscoli facciali. Spesso atrofizzati, soprattutto ai lati della bocca. Perché non parla spesso. Non è uno di quei predicatori a braccio che danno fiato ad ogni pensiero che gli gravita in testa.

Non ha avuto bisogno di pensarci troppo su, lui. Nella sua testa è tutto pronto, tutto prestabilito. Ogni possibile connessione, ogni possibile scelta, lui già la conosce prima ancora che gli venga proposta. Ma la sua faccia resta una tavola levigata dalla più insopportabile presunta indifferenza. Presunta, appunto. In realtà lui ha pensato già a tutto, sa già che domanda gli verrà fatta, e se quella domanda merita una risposta, una smorfia silenziosa o un onesto invito a passare oltre, perché quel discorso nasce già morto nella testa del suo interlocutore, e lui lo sa, e non spreca fiato per qualcosa di improduttivo.
Quando parla non pesa le parole. Ciò che dice pesa di per sé, ogni frase vale per il semplice  motivo d'esser stata pronunciata.

Il cervello gli viaggia veloce, più di altri, perché non deve badare alla pressione dei compromessi. Lavora sodo, ma senza fretta. Sa che la pazienza e il sacrificio sono le armi migliori per non deprimersi nei momenti bui, e per non esaltarsi irrazionalmente quando le cose iniziano ad andar bene.
Ora è seduto sulla sua poltrona a riflettere. Forse non sta fumando, visto che l'aria è già tanto calda. Starà pensando alle frasi con cui calmerà i nascenti bollenti spiriti della sua nuova vecchia platea. Ma senza seppellirli. Perché sognare è importante, e mirare al massimo è l'unico modo per avere quanto meno il minimo.

Sono passati 16 anni. Il mondo è cambiato, vero. Ma il mondo è cambiato anche rispetto a ieri. E non è detto che sia cambiato in meglio, anzi. E allora ben vengano i ritorni, se servono a rimettere in circolo certe buone idee, certi valori sani, certi principi forti ormai da molti dimenticati.
Lui, l'uomo mite venuto da Praga, non abdica, non sogna e non si commuove. Lui pensa al suo lavoro. Allenatore. Colui che prepara i giocatori. Che gli indica la strada giusta da seguire e gli insegna come procedere regolarmente.
Perché puoi avere anche la migliore macchina del mondo, ma se non sai la strada non vai da nessuna parte. Per questo serve sempre una guida.

Bentornato Zdenek. BENTORNATO MAESTRO.

domenica 11 luglio 2010

Gocce di poesia foggiane - Atto II


FUTURO INTERIORE


Dumn è na speranz,
o fors n'illusion',
d'ittars arret ai spall
tizzon' e caravon'.

Dumn 'u timp è bell,
dinn in television'.
E isc' senz'ombrell,
ma puntualment chiov'.

Dumn è na cos' da fa,
n'appunt sop a n'agend.
Ma po' a sveglij' son' e pinz:
"no, non c'a pozz fa. M'arrend."

Dumn è nu piatt d past,
n'addòr d cagnament.
Pe chi magn semp inzipd,
e chi magn poc e a stent.

Dumn, cumpà, è "n'at jurn",
d'cev Rossell' int a 'u film.
E ij c'agghj' pur credut,
ma angòr n'n ved nint.

venerdì 9 luglio 2010

Gocce di poesia foggiane


JURN'T D CAZZ!


Che jurn't d cazz!
Da sbatt a c'p 'n bacc' au mur,
p criticà madre natur',
che stammatin m'ha fatt sviglià!

Che jurn't d cazz!
Quann' a gent è tropp fastidios.
Pur chi m ven a purtà na ros,
senza capì che n'n vogghj' parlà.

Che jurn't d cazz!
P fa' nu sorris m serv nu sforz,
po' ven d'aret u sudor e t'abbrazz,
e vulìv sta sùl, ma nint da fa'.

Che jurn't d cazz!
Mill p'nzir s magn'n u timp,
u sol ind' ai nuvol ha fatt nu zump,
e a ser è turn't senza dic' nint.

Che jurn't d cazz!
S'assett sop a segg' annanz au litt,
m guard e dic': "è inutl che aspitt,
quell che sti cercann' ogg' n'n esc'!"
Allor ij dic: e muv't a fnesc!

Sta jurn't d cazz.