sabato 31 dicembre 2011

L'ultima parola è del Silenzio


Accoccolato ad ascoltare i rumori del suo cuscino; con gli occhi chiusi ed il cervello aperto, laboratorio che non hai mai ferie, non va in vacanza e non conosce soste.
Così Zagaria si teneva aggrappato alla vita, senza piangere o ridere, stringere i denti o sbraitare, protetto solo da una coperta di lana, verde al colore dell'erba più fresca.
Notte di inganni e di cieli stellati, notte di orgoglio e di falsi dei, notte di fate ignoranti e perverse. Notte repressa, notte sperata.
Ma Zagaria ha una buona trovata: nel suo rifugio, un pigiama pesante, digita i tasti di un sogno migliore. Con l'occhio alla luna, e un occhio al suo cuore, indaga silenzi lanciando i perché:


 - Perché nuvoloni? Perché grigio e blu? Perché non l'azzurro? Rispondimi, su.

 - Vuoi che non piova domani?! Figuriamoci, domani pioverà eccome.
Sulle scarpe e nelle scarpe, sopra i tetti e sotto i tetti, contro il muro e dentro i muri.
Pioverà che dio la manda, pioverà pure in veranda. Pioverà di pioggia a tempo, di folate di acqua e vento.

 - Dimmi tutto ciò che resta, e dove mettere la testa. Dammi un'altra previsione, dammi il cielo, dammi un nome!

 - Zagaria non t'affannare, non potrai coprire il mare. Ogni limite è un momento, come il verso, come il senso, come ciò che dice destra quando il sole è ormai a sinistra.
Come questo giorno strano dove sono tutti in tiro: cambia l'anno non l'emiro, cambia il mese non il re.

 - Si concedo, mio Silenzio, che una data sia un arredo, ma non chiedo cambiamenti, voglio solo che mi dica che sarà della mia vita: porta pioggia, porta vento, neve, grandine o maltempo.
Resto sveglio o dormo piano? Cambia lato, cambio letto, pancia sopra o faccia in giù?

 - Di domande è pieno il mondo, di risposte la tua testa.
Zagaria stanotte basta con quesiti, verbi e punti. Vedi  il fondo di ogni cosa, ma di notte si riposa.
Ruba spazio alla speranza, lascia il mondo e la coscienza; datti il tempo di tardare, la distanza per cadere; fai che tutto sia umidiccio.
E la pioggia, sul bagnato, non sarà mai più un impiccio.


Zagaria, nel dormiveglia, non oppose resistenza. Più coatto, che convinto, al Silenzio diede campo.
Corse forte incontro al buio, fino a scivolar svenuto. Dormirà il 31 e l'uno, oltre i botti ed ogni augurio.
Così nulla cambierà, se non cambierà davvero.
Perché il sonno non ha età, come l'uomo e il suo mistero.


giovedì 29 dicembre 2011

Lauta biografia di un osservatore foggiano - capitolo I



Capitolo I


"25 GIUGNO: IL 'GIOVEDI' NERO' DEL MIO CONDOMINIO"


Foggia, 25 giugno/1987

Venni al mondo, in tutta la mia simpatia, chiedendo subito che venisse richiusa la via della luce che voleva rapirmi, per restare a dormire soltanto altri cinque minuti.
Primo figlio maschio della famiglia, dopo due bambine, erano ormai pochi quelli che credevano in un possibile fiocco azzurro in casa mia, e i bookmakers, dalla portineria del nostro condominio fino al postino di zona, quotavano la nascita di un figlio maschio addirittura a 7.50.
Così nessuno si spinse a pronosticarmi nascituro, e tutti preferirono invece puntare sul cosiddetto “no born”, che significava una nuova femminuccia o in alternativa la possibilità che i miei genitori, consigliati dalla sensitiva di famiglia (assegnata proprio dall'Asl), riuscissero a convincermi a restare qualche mese in più nel grembo materno in attesa di una situazione politica ed economica più stabile nel paese; o forse solamente per non perdere i soldi che loro stessi avevano scommesso prima dell'ecografia che stabilì definitivamente il mio sesso: maschio, con tendenze future a pisciare seduto. Ma solo per noia.

[Parentesi col mondo reale n° 1]

Colui che svolse quella fatale ecografia, subì la più pesante delle punizioni: divenne il medico di Michael Jackson. Ora pare sia colpevole di avergli consigliato una cattiva crema per la pelle.



Le cose andarono quindi diversamente da come molti si aspettavano, e il 25 giugno fu un giorno di rabbia e sconforto per tutto il condominio di via Dante, soprattutto per chi aveva puntato forte su (contro) di me. Ci furono suicidi, qualcuno dovette abbandonare la casa che aveva ipotecato, signore e signori di mezz’età si trovarono costretti a vendere prestazioni sessuali per pagare i debiti contratti con l’agenzia di scommesse; queste e altre piccole tragedie caratterizzarono la mia venuta al mondo.
Molte famiglie del palazzo si presentarono quella notte sotto il reparto maternità, ma senza facce di giubilo, bottiglie di spumante, bouquet di fiori, volantini del movimento "Pro life" di Ferrara e tutto quanto il resto si usa di solito per celebrare un nuovo venuto. Semplicemente, mi odiavano. I danni economici che avevo causato a quegli individui li aveva persino distratti dal fatto che la Dc avesse preso ancora il 34% alle elezioni di qualche giorno prima. La mia nascita insomma li aveva inferociti, spazzando via in un lampo di quasi estate tutta l’amorevolezza e lo stupore che solitamente si provano nei confronti di un piccolo fagotto in cui non si distinguono ancora il sopra e il sotto.

[Parentesi col mondo reale n° 2]

Non c'entra un cazzo, ma Sergio Rizzo è uguale a Bettino Craxi.



Feci subito amicizia con un tale molto scuro di capelli che riposava alla mia destra, e di cui non posso riferirvi il nome perché quando ci conoscemmo avevamo tutti e due poco più di un’ora di vita, e lui il nome ancora non l’aveva.
Il tale si rivelò subito un tipo pratico. Innanzitutto mi consigliò caldamente di sfruttare una delle uscite riservate del palazzo ospedaliero per eludere l'agguerrita folla; quindi aggiunse che avrei fatto meglio a rifugiarmi per un po’ di tempo in un posto lontano, tipo il Messico o l’Argentina, aspettando o che la gente estinguesse i propri debiti, o che magari dimenticasse l’accaduto, oppure meglio ancora che morisse del tutto.
Insomma non ero nato sotto i migliori auspici. Sarà stato per l’aspetto estetico, o forse per una faccia poco convincente e un po’ paracula, ma sta di fatto che sin dagli esordi non erano pochi quelli a cui stavo sul cazzo. Mi consideravano un porta rogne, uno svogliato, e avevano poca fiducia sul fatto che potessi riuscire in qualcosa nella vita.
E il ricordo sale all’ostetrica, l'adorabile zitella che mi raccolse ancora sporco e lucido dalle mani del dottore. Mi fissò, alzò la mano destra, e lì, invece di darmi quei soliti schiaffi che si danno agli esseri appena nati, mi indicò di guardarla negli occhi bisbigliando: "Ehi stronzetto, non crederai mica che mi sporchi le mani per te!?"
Ed era solo l'inizio.

lunedì 26 dicembre 2011

Io, Mauro e Anna


Il mondo è una groviera, è pieno di buchi, e in ognuno si nasconde un dittatore, un cuore innamorato, un brutto insetto, una paura o un fiume vuoto.



Mauro si è sempre alzato presto la mattina, ma mai per un motivo preciso. Non tutti vivono per uno scopo, molti  fanno solo ciò che, in virtù di un'idea innata, ritengono sano, normale, bello a vedersi. Si comportano quasi come se non sapessero, o potessero, fare altrimenti. Così Mauro si alzava, si vestiva e scendeva giù con Anna.
Non c'era mattina che non li si vedesse camminare tutt'attorno al palazzo, fermarsi alla panchina, sostare per qualche minuto dall'edicolante, anche se in vent'anni non credo abbiano mai comprato un giornale, e poi rientrare a passo lento e trascinato verso il portone, salutando quei volti disegnati dalla fretta che uscivano per andare a lavoro. Mentre loro tornavano a casa, salutando l'ennesima uscita mattutina come un lavoro compiuto.
Per Mauro e Anna la routine, da accettazione passiva del tempo, era diventata bisogno. Quel tempo diviso in azioni da compiere valeva per loro come il battito del cuore. Frequenza fissa: TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...il ritmo programmato per eccellenza...TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...dio mio che noia...TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...eppure finché lo senti sei vivo. Semplicemente. E così loro sentivano le loro passeggiate come il pulsare che gli ricordava d'esser vivi.
Succede, a chi non è amato.

Non puoi chiedere di essere amato. Non puoi pregare perché qualcuno prenda a volerti bene. Al massimo puoi sperare di iniziare a piacere a te stesso. Se casa tua ti fa schifo, difficilmente ci inviterai qualcuno. Se pensi di non meritare qualcosa, allora non la meriti davvero.

Mauro sapeva come non farsi amare. Urlava; puzzava di rancore a dieci metri di distanza; stendeva il suo disappunto come un tappeto rosso che dall'uscio di casa arrivava fino al portone, come si fa quando c'è un matrimonio. Così che tutti vedessero, così che tutti capissero, anche chi in realtà se ne fotteva ben poco. Esattamente come si fa quando c'è un matrimonio.
Però non abbassava mai la testa, nonostante un accenno di gobba. Si prendeva brighe, responsabilità e colpe di altri che l'andavano ricacciando come il più classico dei rompicoglioni. Quello che fa perché non ha da fare, quello che vuole sentirsi al centro perché non sa dove andare. E magari era davvero così, ma lui almeno c'era. Non sono molte le persone nel mondo su cui puoi fare sicuro affidamento. Tutti vanno, cambiano, girano. Chi non si muove è un limitato, uno che resta fermo come una piazza.
Ma noi dove saremmo se le piazze si muovessero. E se non ci fossero strade, vicoli e incroci, dove abiterebbero i nostri ricordi?

Le paure sono come gli alcolici. Puoi viverci senza, ma è tutto più noioso. Piccolissime dosi sono inutili, ciò che conta è che il sapore resti in bocca per un tempo sufficiente a ricordarlo in futuro. Ma sempre senza esagerare. L'eccesso distorce completamente la realtà. E non mischiate mai paure diverse. Si rischiano mal di testa, nausea, vomito e sedute di psicanalisi

Mauro non si divideva mai da Anna, e Anna da Mauro. Lei bianca, piccola, sempre pronta a tutto, anche a sporcarsi per lui. D'altronde cos'è l'amore, se non sporcarsi insieme.
Lei era la sua unica fonte di sollievo, lui la sua guida. Quando Anna se ne andò, Mauro perse la ragione. O forse fu la ragione che perse Mauro. Non lo trovò più. Le uscite divennero sempre più sporadiche. I calci per allontanare i mozziconi di sigaretta sparsi davanti al portone sempre meno frequenti. Che senso aveva rendere decente quella soglia se poi non doveva esserci più Anna a varcarla?
I suoi capelli, per omaggiarla, si colorarono dello stesso bianco di Anna. La gobba si appesantì, Mauro pareva voler avvicinarsi sempre più a terra. La sua voce perse di profondità, i monosillabi si facevano secchi, duri come latrati di rabbia e vecchiaia. Adesso la sentiva ancora più vicina, lei che nel suo ringhio metteva la forza di dieci cani da guardia.
Lei era la cagnolina di Mauro, il vecchio che ha sentito addosso l'odio, il terrore, il rispetto, la vergogna, il fastidio, la pietà.
Uomo che ha camminato tanto, e che adesso forse vuole solo riposare.

sabato 3 dicembre 2011

Passi falsi


Non ricordo come si chiamasse quella villa che fronteggiava la finestra del nostro appartamento. Era bianca, presentata alla strada da una cancellata arancione fatta di aste con in cima sfere sempre più grandi man mano che dai lati si arrivava al varco che apriva il cancello. Le due palazzine all'interno erano protette da alberi alti e robusti, che avvolgevano le mura come un denso fumo verde, facendo intravedere solo due delle tante finestre che rubavano aria per rivenderla alle anime nascoste di quella casa.
Non ricordo se la villa avesse un nome, ma ci ripetevamo sempre che un giorno avremmo trovato il modo di entrarvi. Per salire di corsa le scale, spalancare le porte delle stanze serrate (sicuri che anche quella casa, come tutte, avesse delle camere ad accesso limitato) e celebrarci come una sorta di esercito di liberazione, recuperando un antiquariato forse mai esistito, ma che per noi abitava idealmente quegli oscuri spazi interni a prescindere da tutto. Come un'istituzione. Come un ricordo mai nato.
E poi saremmo entrati per guardare il mondo da quelle finestre così vicine ai nostri occhi eppure così distanti dal nostro vivere, fatto di sabbia, di vestiti umidi, di salsedine, di sudore, di accecanti bagliori di vitalità, e di attimi di buio da lasciare in pasto al desiderio. Saremmo entrati e avremmo sporcato tutto con la nostra vita, avremmo tatuato la nostra presenza sul pavimento con i nostri passi rapidi ed eccitati, avremmo agganciato i nostri sospiri al soffitto come lampadari pieni di cristalli mai fermi. E mai banali.


Non ricordo il nome di quella villa. Né la strada, o in che paese si trovasse. E sono una persona di ottima memoria, giacché sono ben descritti nella mia testa il taglio dei tuoi occhi, il caldo tepore della tua mano, il sapore salato della tua lingua, i tuoi nei, ogni metro percorso insieme, quando mi hai chiamato per la prima volta "amore", la misura dei tuoi piedi, il numero delle tue dita, la quantità minima di sguardi al minuto (quattro, ossia uno ogni 15 secondi), la lunghezza delle tue braccia, il confine naturale di ogni carezza, le lacrime aiutate e quelle boicottate; il tempo esatto che mi ci volle per capire che nulla sarebbe stato come prima.
Eppure non ricordo nulla della geografia di quel posto. Forse perché arrivammo lì perdendoci, e smarriti ci rimanemmo. Spersi in un punto, e ovunque. Come quando ci si ferma in mare, e si volge la testa verso la riva a cercare riferimenti puntualmente spostati. Un metro, due, dieci, mille chilometri. Da un posto all'altro del mondo senza saperlo. Senza volerlo. Forse.


Non ricordo, giuro.
Non ricordo se in quella villa ci entrammo mai, o se passammo tutto il tempo a fissarla dalla nostra finestra. Non ricordo se la contemplammo più di quanto non desiderassimo farla nostra. E non ricordo se protestai quando la spogliarono prima delle luci, e poi degli alberi fitti, della cancellata, dei mattoncini di marmo che segnavano la via fino all'uscio e delle panchine che accompagnavano la porta ai due lati. Pian piano sparì tutto il resto, e non ricordo se ce ne accorgemmo mai, né per quanto tempo continuammo a fissare il nulla.
Non ricordo se quella villa è esistita davvero, o se l'ho letta, sognata o disegnata. Non ricordo se ho fatto in tempo a inventarla prima che sparisse definitivamente anche dalla mia testa.
E non ricordo neanche più se manca un pezzo a questa storia. Forse si. Adesso so solo che mi sono perso ancora; ed è questa la mia unica vera storia.