mercoledì 20 novembre 2013

Anche i termosifoni, nel loro piccolo, sbagliano


Ho visto ragazzi non aiutare signore imploranti a tirargli giù i bagagli. Ho visto campi non illimitati, case vuote e luci spente. Ho visto favori non ricambiati.

Ho visto strappare biglietti inutilizzati. Ho visto stranezze non manifeste. Ho visto crocifissi nascosti, mani in tasca e cioccolate sciolte.

Ho visto ascoltare musica a basso volume dalle cuffie. Ho visto stazioni che ho riconosciuto. Ho visto caffè freddi, tramonti di corsa e montagne basse.

Ho visto gente seduta di fronte non condividere sguardi di circostanza in momenti di imbarazzo. Ho visto maschi non spiare nelle scollature. Ho visto sorrisi spegnersi, cerchi interrompersi, e prodezze uscire fuori dalle paure.

Ho visto cappotti tenuti sulle gambe invece che essere appesi all'attaccapanni. Ho visto monnezza poggiata fuori ad un cassonetto vuoto. Ho visto solitudini non incontrarsi, carinerie sprecate e volgarità dette sottovoce. Ho visto manifestazioni di "sì".

Ho visto squillare cellulari con suonerie banali. Ho visto persone pagare l'amore invece che il sesso. Ho visto fantasticare cocenti sconfitte. Ho visto contare errori.

Ho visto un settantenne digitare sull'iPad mentre chiamava qualcuno con un iPhone per parlare di siti Internet.
E ho visto me scrivere tutto questo a penna, e pensare d'essere sul treno sbagliato.


mercoledì 9 ottobre 2013

La costruzione di un crollo




Non ti chiamerò stasera, non sciuperò il tuo nome.
Ripasserò ancora la lingua agli angoli della bocca per prendere tempo, e mi guarderò le ginocchia accavallate uno spasmo sopra l'altro, fingendo che sia il mondo a tremare e non io.
E se cadrà un bicchiere dalle mani, sarà stato un suicidio.
Non avrò modo di ascoltare il mio dolore, perché dovrò viverlo. Rimbalzerò con le lenti tra il soffitto e il battiscopa, aiutandomi con i vetri e gli stipiti delle porte, e socchiuderò le palpebre per credere in un sogno troppo brutto per non essere vero, di quelli che ti risvegli senza fiato, con un lembo di lenzuolo stretto tra le dita tirate, e l'imprecisione della notte che ti scherza con i suoi demoni nascosti sotto al letto.
Arriverà un momento in cui sarò costretto a mordermi un pugno, a cercare con i denti le nocche per sentirmi un po' della mia carne che è anche la tua.
Batterò pochi respiri ma profondi, riempiendo al massimo la cassa toracica per poi liberare lentamente l'aria dal naso, chiedendole di trascinare i suoi giorni da qualche altra parte.
Ruberò ancora minuti alla consapevolezza, e con essi tutti i secondi che potrò, con qualsiasi mezzo, con ogni ricordo, avvinghiandomi all'imprevedibile meschinità dei colpi bassi, che iniziano a fare male solo dopo che si è frantumato lo stato di immacolata incredulità.
Sarà in quell'attimo beato di distrazione fatale che mi schianterò nel tuo viso, e con la schiena dritta ed il collo fermo sul tronco scoppierò, ad occhi aperti, come un pallone rigonfio di pianto.
Ma non ti chiamerò stasera, terrò il tuo nome tra le labbra.
Per non sciuparlo.
Per gridarlo forte quando tornerai.


lunedì 23 settembre 2013

Le confessioni di un comico che non faceva ridere


Davanti al palco siamo tutti grandi: grandi artisti, grandi figuracce, grandi risate, grandi imbarazzi. Ma dietro?
Nell'anticamera del fallimento ci siete mai stati, la placenta del successo vi ha mai accarezzati? Avete mai provato a sbagliare da inutili, da sconosciuti, dalle retrovie?
Chi non ha il coraggio di suggerirsi le frasi davanti allo specchio non sarà mai un grande attore, e nemmeno il peggiore dei cani. Sarà soltanto uno dei tanti conati rimasti tali, due dita in gola troppo piccole e troppo poco incisive per ribaltare una digestione, figuriamoci un'intera carriera. E sapete come si chiama la malattia di chi deve ridimensionare i suoi grandi progetti per via delle mani piccole? "Minimanismo".
Avete riso? Neanch'io, è un momento che va così, ma non mi abbatto. Come già detto, ho visto pensieri eccellenti spalleggiarsi e divertirsi al centro della piazza, per poi prendersi a pugni una volta girato l'angolo. Dietro le quinte dell'esibizione, lì dove la verità è più vera.

Un giorno di tanti anni fa, durante un secondo di tanti pranzi fa, stoppai senza furore, ma seccamente, una biografia non autorizzata con cui mia madre s'apprestava a presentarmi agli ospiti: "Non ero portato per il conservatorio. Sei tu che mi ci hai portato, è diverso!". Io colsi l'ironia, i presenti la stizza con cui la misi a tavola, mia mamma soltanto un feroce e impercettibile crollo delle convinzioni di una vita, la sua. Come se adesso qualcuno vi dicesse che per anni avete leccato i francobolli dal lato sbagliato.
La tavola si immerse in una piscina sporca di improbabili cordialità, mio padre prese a versare vino più a sé che agli altri, mia madre si assentò e lasciò a tavola solo degli occhi vuoti di biglia, mentre al tg1 Oscar Luigi Scalfaro chiedeva riforme istituzionali, Casini si diceva d'accordo, e il capo di Stato riappariva per assicurare che di Casini non ne sapeva nulla.
Intanto io, faccia e orgoglio da boia rinnegato, toccai con mano l'ennesimo letargo di silenzi che m'avrebbe atteso in famiglia. Ma al termine della giornata, quando i figuranti s'erano ormai fatti largo giù in strada, sentii indistintamente mamma che nell'atto di sparecchiare la tavola mi convocava accennando un "Vieni stronzo..e così ti ci avrei portato io al conservatorio?!..."

Aveva aspettato le ore piccole per perdonarmi, forse non voleva farsi notare. Certo, non  aveva preso bene la mia uscita, ma le bastava pensare che gli altri avessero lasciato casa con l'immagine della donna fiera e del figlio ingrato. Il cliché la appagò, dalla rappresentazione era passato un messaggio importante. Il resto erano cazzi nostri, come nostro è l'amore.
Io di giorni rovesciati così ne ho vissuti tanti. Ogni volta che misuro i passi sulle scalette che mi portano sulla scena mi sento pronto alla satira più insolente. Poi, puntualmente, la satira da insolente si fa insolvente, nel senso che non paga. Ed è proprio a battute simili che la gente non ride, come non ho fatto ridere voi.
Però sul palco ci sto bene, anche quando accuso i cazzotti delle smorfie rigide degli spettatori. Perché, a dirla tutta, le battute che faccio spesso non le afferro nemmeno io. Ma senza il pubblico chi se ne sarebbe accorto?
E se non ci foste stati voi, come l'avrebbe capito mia madre che quella era solo una brutta battuta?


mercoledì 4 settembre 2013

Quando un uomo è Franco


Sono Franco, e faccio il mestiere più antico del mondo. Forse il secondo.
Faccio il bagnino, da tanto. Non ricordo l'anno, ma posso dirvi che se Mosè aprì le acque, fui io a dare il permesso di attraversarle. E se non mi credete, leggete Focus.
Quest'estate vi ho spiato, dal mio buco d'aria rubato all'altezza di una torretta grigia e corrosa estorta ad una spiaggia foriera di ore interminabili come fuochi di camino invernali.
Ti ho guardato, signorina ucraina, mentre rubavi il cuore del meccanico napoletano finalmente in ferie, e so tutto ciò che di degenerato ha pensato di te la tua nuova famiglia, che per quante risate e abbracci potrà regalarti, non accetterà mai questa bionda irrefrenabile amante di una vita che si trasforma repentina in scuola di gioie. Prova sincera di un mondo che il bene non sa nemmeno com'è fatto, e che a volte lo prova stupito neanche fosse un accordo ritrovato a distanza di anni dall'ultima strimpellata.
Ti ho guadato, padre, dormire nell'attesa che, da un ombrellone all'altro, la tua bambina si scoprisse sola e matura e fingesse di cadere per sentirsi addosso quell'apprensione paterna che rende figlia ogni piccola donna. Cercando lei il tuo sguardo, e tu le sue mani, come un desiderio ricambiato destinato ad essere spazzato via dalla centrifuga del tempo che cresce.
Ti ho guardato, mamma, immaginare il fiero campione protagonista della magnificenza del tuo utero districarsi quasi quarantenne, a distanza di chilometri dal tuo lettino, in un falò di cassa integrazione e scadenze chine sul collo come gocce di sudore acido. Figlio ma non più, operaio ma non abbastanza, uomo ma non troppo.
E ho guardato te, ragazza mia, sulla sedia della tua camera a dare le spalle alla scrivania e a fissare un vuoto a caso nei pezzi di cielo disegnati sulla finestra, in licenza dalla concentrazione, per arrovellarti il cervello nel tentativo di trovare modi per spegnere il tasto del mio ricordo, ignorando dove sia perché non t'è mai interessato saperlo.
Vi ho visti andare via, tutti, da un giorno all'altro, lasciandomi a fare da guardia a questo mare che vorrebbe anch'esso ritirarsi, ma proprio non ce la fa. Ed io, senza dire nulla, resterò a guardare il suo e i vostri ritorni.
Tornerete a contenere errori e successi in bagni di profonda solitudine, e poi mi ignorerete di nuovo. Ma io non mi muovo. Perché amo così tanto il mare e il libero arbitrio, che non vorrei li usaste per fare cazzate.


lunedì 29 luglio 2013

Se spegni la luce ci vedo meglio (Un dialogo impossibile)




 - Che non è normale parlare a una stella lo sapevo io prima di te!
 - E allora perché mi hai chiamato?
 - Perché non avresti dovuto rispondere.
 - Strana idea la tua: mi chiami, mi appelli, mi fissi, e poi io non dovrei rispondere?!
 - Ma tu sei una stella, un astro, un cazzo di corpo celeste messo per stare lì a mortificare la nostra ridicola e frantumata esistenza.
 - Quindi tu in tutti questi anni hai guardato le stelle solo, diciamo, per autocompiacerti di questa infinita piccolezza? Di questa mediocre capacità di condizionare la tua vita?
 - Forse, ma era un mio diritto. Anzi lo è. Vegliate per anni sulla nostra esistenza dettando i ritmi di nascite e morti, il minimo che possiate fare è accettare di essere sparring partner di serate in cui la testa non sa fare altro che volgersi al cielo in cerca di innocenti finzioni.
 - Davvero pensi questo? Contenti voi..
 - Sei una stella lucida e accecante, ma hai dei bagliori di maleducazione che ti renderebbero invisa anche alla più sconfortata delle notti. Quella in cui il sonno, più che un bisogno, è un faccendiere cinico che sbriga prima i suoi affari e soltanto dopo arriva a te, alla tua fame di pace e silenzi.
 - Eppure sono fondamentale, continuo ad essere sfondo esemplare di sogni e perversioni, di immensi piaceri e acute maledizioni. Tu vedi nascere me, ma io vedo morire te e il tuo giorno.
 - Vorrei restare sveglio tutta la notte per sfidarti verbalmente, per dichiarare guerra una volte per tutte alla prepotente bellezza con cui illumini e giudichi, permetti e condanni.
Ma ho una notte da affrontare, e so che restando intrappolato in questo futile e inventato discorso finirei di nuovo a fare la figura del vigliacco schiavo della parola, che resta a imbastire dialettiche ma non si sporca le mani con il sognato, con l'imprevedibilità del sonno armato.
Invece adesso mi spengo, mollo tutto, e ti mostro che non ho paura degli occhi chiusi. Mi basta sapere quello che voglio.


lunedì 22 luglio 2013

L'inerzia è mezza bellezza



Io la guardo. Lei non mi guarda.
Un classico, si dirà. Affatto. Stavolta ero giustificato: le stavo dietro. Nessuna volgarità, no, camminavo qualche metro alle sue spalle. Ma lei era bella anche vista di schiena. Anzi, soprattutto vista di schiena. A questo punto si starà già insinuando la vocazione maniacale del pedinamento. Niente di tutto questo, io andavo per la mia strada, lei per la sua. E fu solo un caso se queste si incrociarono davanti ai miei occhi come un'illuminazione: saremmo perfetti insieme, lo siamo già!
Avevo sciolto la camminata come si fa quando si procede senza una destinazione, l'avrei seguita e basta. Già mi immaginavo la sordità del piacere spudorato e istintivo dei primi baci al chiaro di luna, le albe divorate dal desiderio, i sorrisi incontrollati nel triste silenzio dei luoghi pubblici, la felicità del rivedersi dopo la noia del lavoro, l'esordio diffidente tra me e i suoi genitori, il matrimonio, i figli, l'impegno ad invecchiare con stile.
Si, forse mi sono lasciato prendere dalla fantasia. E chiesi scusa soprattutto a lei, a questa nuca bellissima che non volevo sciupare, a questi sentimenti esplosivi che duravano da quattro porticati. Era una storia che stava nascendo forte e sincera, lo avvertivo nel suo sguardo furbescamente consapevole. Che non vedevo.
Ecco ora il racconto del momento in cui l'ho fermata e messa a conoscenza del nostro ormai datato rapporto, si penserà. No, altro errore. Lei ha continuato a scivolare dolcemente con i suoi jeans sull'asfalto, ed io a calpestargliene l'ombra, sorta di originale primo approccio. Dopo ciò lei non avrebbe più potuto dire di non conoscermi, di non aver passato con me dei momenti importanti. Eravamo lì: i miei piedi sul riflesso della sua testa. Una cosa sola.
Ho camminato non so quanto, dentro un'umidità irriverente, e all'ennesima fermata autobus superata avrei quasi voluto prenderle la mano per provocarla: "Credi davvero che la nostra storia non meriti non dico un viaggio di piacere, ma quantomeno un passaggio? Un aiuto?". Ma non volevo pensasse a una mia intenzione di tarparle le ali, di imporre decisioni. Così mi sono rilassato, e ho accettato in silenzio di proseguire. Aveva scelto ora, luogo e modo del nostro incontro: dovevamo camminare e fantasticare. Per costruire. Lei era la mente, io la gamba.
Quindi è entrata in un bar, e naturalmente l'ho accompagnata. Ha preso un succo, io un caffè. Non sono riuscito a guardarla, eravamo distanti. Ma ho fissato per tutto il tempo i suoi piedi, che con smorfie di fastidio esprimevano il chiaro desiderio di fermarsi, stanchi per aver vissuto una mattinata, e forse una vita, a non ricambiare un'attrazione così evidente.
Uscita dal bar, ha attraversato semplicemente la strada e ha citofonato al portone di un numero civico di cui non ricordo le cifre, ma che sono sicuro fosse dispari. Lì realizzai che il nostro appuntamento di quel giorno era al capolinea, e che non avevo ancora fatto nulla per accertarmi ve ne sarebbe stato un altro. Dovevo intervenire.
Restai immobile a guardarla entrare e sparire in un androne. Se ci ritroveremo ombra nell'ombra, pensai, vorrà dire che aveva sentito ciò che avevo sentito anch'io.
"E poi?", mi interruppe lei, come a voler risentire un finale già noto.
"E poi lo sai: ho preso l'autobus, sapendo che tutta quella strada a piedi le tue gambe non l'avrebbero retta di nuovo."
"Vuoi dire che mi hai ritrovata per questa botta di culo?!"
"Se così lo vuoi chiamare..."
"E come devo chiamarlo? Se non avessi preso l'autobus non mi avresti rivista. Mi avresti seguita di nuovo?"
"No."
"Quindi hai solo lasciato scegliere il destino."
"No, ho lasciato scegliere te. L'inerzia è mezza bellezza. L'altra metà sei tu."


lunedì 10 giugno 2013

Senza vergogna



Ho spento la luce della camera, e ho chiuso la porta.
Ci sono momenti della vita, situazioni scelte, in cui la sola azione possibile è la rinuncia; l'unica affermazione di  volontà, il rinvio.
Non le dimentico le parole di mia nonna: "Se non sai cosa fare, non fare niente". Ma le porte non sono fatte per l'immobilità, ogni soglia è un propulsore di eventi. Esserci o non esserci, il confine è tanto labile quanto irrimediabile. Anche gli stadi e i bagni pubblici non contemplano le porte socchiuse, e nemmeno la casa del Signore: devi scegliere.
Mara era distesa sul fianco: non l'ho vista, l'ho disegnata. O immaginata, o desiderata. Il suo letto si trova sulla sinistra della camera: quando si è sulla soglia, la porta lo fa scomparire dagli  occhi.
Comunico a me stesso quanto ho deciso, lo rivedo, lo sento trascinarsi stancamente sulle labbra come a ripetere svogliato una preghiera a cui non credo più.
Avete presente i saluti a chi vorremmo non partisse mai? Le risate, le raccomandazioni, le venature di "vorrei" che gonfiano i canali sanguigni tra un "mi piacerebbe che tenessi questo" e un "ti scrivo appena arrivo"? Ecco, esattamente quelle formule di rito che tolgono spazio al silenzio degli amori vinti e alle lacrime rabbiose delle mancanze materiali.
Mi muovo lento e posato per togliermi via da quell'uscio delle tentazioni. Mara mi concede il lusso di essere, nello stesso tempo, schiavo del piacere e severo fustigatore delle continue fantasie che le dedico. E che lei cerca, alimenta, impone.
Il confondersi dei corpi nudi in un unico odore di piacere diventa però subito una minaccia, un'allerta: così rischi di innamorarti di me, mi dice lei, e non puoi, sei ancora debole, io richiedo attenzioni, sforzi! Continua ancora lei. Trattandomi come fossi io una Grecia qualsiasi, e lei la troika.
Serve rigore. E saperla sdraiata a un metro da me non può essere d'aiuto. Ma è lì che si svela la differenza tra chi chiude gli occhi alla realtà, e chi invece è padrone del proprio destino. Perché in certe occasioni un "no" vale più di mille sonni eccitati.
Ci sono momenti nella vita in cui bisogna girare le spalle, e voltarsi indietro. Ma non era il caso di stasera.
Ho spento la luce della camera, e ho chiuso la porta.
Quando ho fatto il primo passo verso il letto, Mara ha lanciato via il lenzuolo scoprendo le gambe fresche, e si è voltata ridendo.
Sapevo di non sbagliare: era distesa su un fianco. Sveglia. Aspettava me.


domenica 19 maggio 2013

Cara giovane Gaia, la storia è inutile


Si, inutile.
Come d'altronde hai potuto constatare tu stessa, visto che sei nata in perfetta forma completamente a digiuno di passato, con in mano solo giorni a venire e niente verso cui tornare.
E non lo dico io che serve a poco, ma lo dice la storia stessa. Quella tradotta dal genio di zelanti ricercatori e onesti usurpatori di fonti più o meno affidabili, tutti però incapaci di venire a patti con la verità.
Così la mia, la nostra Patria, finisce per morire e rinascere di continuo sulle note di un eterno balletto di servi, padroni e schiavi. Chi ha vinto ha vinto, e chi ha perso ha perso, scurdammac' o passat: siamo gente d'Italia.
Abbiamo visto quel duce urlare e ridere, salire sulla mietitrebbia e scendere a testa in giù a piazzale Loreto, per un momento hanno cercato di instillarci persino pietà. E abbiamo studiato le intenzioni in Vietnam, i fasti eroici del Risorgimento, le mode di Napoleone, le messe di Carlo Magno. E fra trent'anni ci diranno come i presidenti Cossiga e Andreotti, fra un silenzio e una battuta di spirito, hanno malgestito il caso Moro, le bombe di piazza, la mafia e la magistratura che diventava primo potere dello stato a pari merito con quello esecutivo e calcistico.
Quindi con una sigla, una risata, una bestemmia o un'acuta analisi spaccheremo il capello in quattro, e ognuno avrà ancora la sua parte.
Ma è tutto inutile, te lo ripeto. I buoni, i cattivi, il contesto, le motivazioni, le conclusioni: tutto giustifica, tutto placa. E più se ne scrivono, più diverse sono, più il cerchio si chiude: la pace è raggiunta.
Perché è umana come l'uomo che la racconta, e l'uomo è un errore che esiste nella speranza di autolimitarsi in vita. Così ogni evento si umanizza e, spiegato, ritorna. "La prima volta come tragedia, la seconda come farsa", dice Marx. Quello della fine della borghesia, della dittatura del proletariato, del superamento dello Stato: 160 anni di inoffensive seghe mentali. Di uno storico, appunto.
Si, Gaia, è inutile. Un esercizio di finta umanità buono per chi se lo può permettere. Costruisce le immagini di un certo momento pretendendo di rimodellarle poi con sempre maggiore precisione nel tempo. Vuole cambiare il passato nel futuro: pura utopia, follia da megalomani vicini alla malafede.
La storia illude, rammarica, coinvolge senza sconvolgere. E' scritta perché non può essere praticata, iscrive nella memoria un passato altrui, che non ci è appartenuto, che non ci apparterrà mai. Impone ieri nel nostro domani.
Per questo bisogna combatterla, nel presente, ogni giorno, guardandoti negli occhi e salutando il tuo arrivo.
Benvenuta, Gaia.


martedì 23 aprile 2013

Gli insegnamenti del mio professore di caos



"La risposta è ciò che cerchi quando non hai una domanda".
Il mio professore lo diceva sempre. Si, non era un professore con le idee molto chiare, almeno per me. Raramente ho capito cosa volesse intendere. Ma d'altronde esisteva proprio per quello: era il mio professore di confusione. Teneva un corso di "Caos applicato alle teorie di auto-conservazione"; già dal nome si capiva (per modo di dire) che per il resto di quei giorni avremmo capito poco.

Adorabile, entrava in aula camminando all'indietro perché a suo parere l'immagine della schiena ci avrebbe distolto dall'idea del suo ingresso e dall'inizio della lezione. Una sorta di contraccettivo alla disattenzione.
Anche per questo contravveniva alla più logiche norme di educazione: spesso, come facesse non ho ancora capito (si, il verbo sarà una costante di queste righe), urlava con forza "scusate" e solo dopo 20-30 secondi lasciava partire uno starnuto flebile e di gran lunga più silenzioso della sua presentazione; altre volte, mentre parlava, si interrompeva per ordinarci di andare in bagno o uscire a fare due passi, che noi volessimo o meno.
E che dire di quando fece impazzire il bidello affinché montasse nella nostra aula il proiettore con relativa struttura, e dopo le fatiche del poverino decise di uscire e di farci fare lezione all'aperto. Ricordo che quella volta provai a chiedergli, con discrezione: "Professore, ma perché l'ha fatto?"
Non l'avessi mai fatto io: mi spiegò che le diapositive erano brutte e inutili, e che lui se n'era accorto soltanto dopo; ma a quel punto mi rispedì comunque in classe a guardarle da solo, se tanto ci tenevo.
Non si sta a fare la tara sulla scelta di un insegnante, mi fece capire. Oddio, diciamo che questa è la spiegazione che mi sono dato anni dopo.

Nella mia memoria è rimasto tuttora illeso pure il suo rapporto con la fede. Pregava in una maniera che non saprei definire in altro modo che assurda. Parlava col cielo in un linguaggio spiritual-burocratico, quasi come applicasse dei commi alle sue riflessioni. Una volta lo sentii dire testualmente: "Signore, le affido la richiesta del giorno 12, come accordato in relativa data. Però si impegni un po' di più di quanto preventivato: la situazione è critica."
Resto dell'idea che quella professione e quell'insegnamento gli avessero divorato l'anima come un tumore benigno, smontando una mente altrimenti lucida e ficcante. Una sera io ed alcuni amici lo incontrammo con grande sorpresa al bancone di un pub. Ci disse che stava preparando la lezione del giorno seguente, e noi sbuffammo sorridenti e sornioni, pensando all'ennesimo disorientamento "didattico" e immaginando chissà quale voglia di alcool e solitudine l'avessero invece trascinato in quel locale all'una di notte.
Il giorno dopo, neanche a dirlo, trovammo sui banchi un boccale di birra per ogni posto a sedere, mentre lui seduto alla cattedra sorseggiava già il suo, e aspettava che lo accompagnassimo così che potesse iniziare la lezione: trattò per due intere ore di modi per smettere di bere quando si avrebbe invece voglia di continuare, di maniere per fingere interesse nelle conversazioni senza proferire una sola parola, e di saluti finali calorosi che riescano però nello stesso tempo a non dare all'interlocutore di bevuta l'idea che ci si rivedrà a breve.

Tutte tattiche in gran parte poi smentite dall'esperienza dei fatti. Ma d'altronde ancora adesso, dopo anni di libri e compiti, faccio fatica a risolvere un'equazione e a capire Hegel, quindi non ne farei una questione personale o di metodo.
Anzi, avere un maestro nel fraintendimento volontario e consapevole è stato un vantaggio, ora posso dirlo.
Ho in mente un concetto ben preciso che devo soltanto a lui. Quando mi spiegò che "andare e venire non sono contrari, non sono sinonimi, non sono stati dell'anima, non sono percezioni, non sono scelte, non sono storie di vita".
Ed io mi affrettai a chiedergli cosa fossero.
E lui disse: "Soltanto due verbi".




venerdì 1 marzo 2013

Qualcuno che ho imparato a conoscere




Il mio Gesù personale oggi è sceso a dirmi che è tutto ok, che le cose vanno come devono andare.
Allora io gli ho detto che forse bisogna rivedere i programmi originari. Ma lui mi ha risposto che ha vinto regolarmente le primarie, con Barabba, e che tornare indietro non si può, anche perché croce e chiodi li ha presi lui. Non io.
Io gli ho detto che forse lui e il suo staff hanno fatto un errore di prospettiva. Certo, duemila anni di consenso sono duemila anni di consenso, e non si discute; tenere botta a riformatori, maniaci e pazzoidi con in testa sempre quel cazzo di progresso avrebbe sfiancato chiunque. Ma col senno di poi gli obiettivi a lungo termine sono stati toppati praticamente tutti: amore, solidarietà, fratellanza, eguaglianza, rispetto, fiducia nel prossimo.

Il mio Gesù personale si è allora detto stupito della mia faciloneria, della semplicità con cui, a suo dire, giudico cosa va e cosa non va nel mondo.
Lui, laurea in psicologia e una vita passata a fare il motivatore, non ci sta proprio a guardare solo il bicchiere mezzo vuoto. Ci sono un sacco di cose belle nel mondo: la sintassi, il fermento inspiegabile suscitato da due persone che discutono ad alta voce, il mare di notte, la paura eroica e contagiosa di perdere chi si ama, i buffet dove si mangia a scrocco, i sogni erotici, la posizione orizzontale, gli alberi, le congetture.
Ne dice così tante che credo di non aver capito nemmeno quelle di cui mi sembra d'aver memoria, magari le ho inventate, chissà. E non certo perché un Gesù non potrebbe dire ciò che ho scritto: è il mio, figuriamoci se si perde in titubanze di sorta.
Piuttosto sono sicuro di aver mischiato ad un certo punto i miei pensieri alle sue parole, perché ogni volta che si parla di cose belle io faccio così: mi astraggo, metto a lucido la fantasia, penso di desiderare e desidero di pensare.

Il mio Gesù personale ha detto che io non sono proprio il tipo che si può permettere considerazioni critiche su chicchessia, visto che non ho un contratto di lavoro, e nemmeno un rapporto stabile o una squadra vincente per cui fare il tifo.
Si, lui è famoso per saper toccare i tasti giusti. Ma io non stato a guardare e ad ascoltare, e la cosa della squadra gliel'ho rinfacciata subito. Gli ho ricordato di quanto ha rotto il cazzo agli apostoli sul concetto di gruppo, di fedeltà, di credere prima di qualunque prova. Ed io questo faccio per i miei colori: sostengo una baracca sempre più decadente spesso fingendo di non sapere cosa vi è dentro, e la fine che farà.
Ma a differenza sua, ho pure aggiunto, io ho sposato una causa per scelta personale, non per imposizione altrui. Però queste sono cose private della sua famiglia, e non è giusto metterci bocca.
E forse è vero che lui ha più fascino, ma non credo abbia mai fatto ridere una ragazza più di me. Nell'unica festa a cui è stato, gli ho rammentato, si è ritrovato a dover trasformare l'acqua in vino perché si stavano annoiando pure le brocche.

Il mio Gesù personale comunque è convinto che io sia mezzo matto. Dice che parlo da solo, che sogno ad occhi aperti scene fuori dalla realtà, per una sorta di masochismo emotivo con cui auspico al meglio preparandomi al peggio.
Il mio Gesù personale non ha grande stima di me, sono sicuro che se mi vedesse fuori di qui fingerebbe di non conoscermi.
Il mio Gesù personale non è figlio di Dio, ma solo di una riflessione lunga e sbagliata. Per questo lo adoro.



martedì 8 gennaio 2013

Il tonto alla rovescia



Voglio camminarti sul soffitto di casa. A testa in giù.
Per guardarti negli occhi con il sangue al cervello, per lasciare le mie impronte sopra di te così che alzando gli occhi tu possa guardarle come stelle di un cielo umano, imperfetto ma vicino. Vissuto.
Voglio marciare su quanto hai di più bianco, voglio sporcare l'apice della tua casa e di ogni tua giornata, voglio essere la tua fine del mondo.
Per alimentare la tua rabbia, spolverare il tuo lampadario e controllare se hai problemi di calvizie. Per essere satellite delle tue ingiurie e lasciarti così bestemmiare in santa pace, senza la minima paura del peccato.
Voglio mistificare la tua realtà vibrando al contrario nell'aria che respiri, voglio assorbire i cattivi odori e restare a godermi le scie dei profumi quando te ne vai.
Per metterti sotto pressione e farti sentire osservata, per aiutarti a scappare e poi venire a riprenderti.
Voglio distruggere le ragnatele agli angoli, le macchie più irraggiungibili ed ogni sospetto di abbandono e desolazione. Ogni segnale di resa.
Per aprire spiragli dove far passare le tue preghiere, e lucidare punti su cui far brillare i desideri.
Vorrei guardare gli occhi chiudersi, e colorare il tuo buio.
Per essere circondato dai tuoi sogni, accompagnarli, ricordarli per te e farmi da parte al risveglio.
Vorrei iniziare dove finiscono i tuoi pensieri.
Per esserci sempre, come una metà. Come il sonno e la notte.
Vorrei camminarti sul soffitto di casa. A testa in giù, per sorprenderti.
Per imitare la tua vita al contrario.
E per cadere nella tua scollatura.