lunedì 29 luglio 2013

Se spegni la luce ci vedo meglio (Un dialogo impossibile)




 - Che non è normale parlare a una stella lo sapevo io prima di te!
 - E allora perché mi hai chiamato?
 - Perché non avresti dovuto rispondere.
 - Strana idea la tua: mi chiami, mi appelli, mi fissi, e poi io non dovrei rispondere?!
 - Ma tu sei una stella, un astro, un cazzo di corpo celeste messo per stare lì a mortificare la nostra ridicola e frantumata esistenza.
 - Quindi tu in tutti questi anni hai guardato le stelle solo, diciamo, per autocompiacerti di questa infinita piccolezza? Di questa mediocre capacità di condizionare la tua vita?
 - Forse, ma era un mio diritto. Anzi lo è. Vegliate per anni sulla nostra esistenza dettando i ritmi di nascite e morti, il minimo che possiate fare è accettare di essere sparring partner di serate in cui la testa non sa fare altro che volgersi al cielo in cerca di innocenti finzioni.
 - Davvero pensi questo? Contenti voi..
 - Sei una stella lucida e accecante, ma hai dei bagliori di maleducazione che ti renderebbero invisa anche alla più sconfortata delle notti. Quella in cui il sonno, più che un bisogno, è un faccendiere cinico che sbriga prima i suoi affari e soltanto dopo arriva a te, alla tua fame di pace e silenzi.
 - Eppure sono fondamentale, continuo ad essere sfondo esemplare di sogni e perversioni, di immensi piaceri e acute maledizioni. Tu vedi nascere me, ma io vedo morire te e il tuo giorno.
 - Vorrei restare sveglio tutta la notte per sfidarti verbalmente, per dichiarare guerra una volte per tutte alla prepotente bellezza con cui illumini e giudichi, permetti e condanni.
Ma ho una notte da affrontare, e so che restando intrappolato in questo futile e inventato discorso finirei di nuovo a fare la figura del vigliacco schiavo della parola, che resta a imbastire dialettiche ma non si sporca le mani con il sognato, con l'imprevedibilità del sonno armato.
Invece adesso mi spengo, mollo tutto, e ti mostro che non ho paura degli occhi chiusi. Mi basta sapere quello che voglio.


lunedì 22 luglio 2013

L'inerzia è mezza bellezza



Io la guardo. Lei non mi guarda.
Un classico, si dirà. Affatto. Stavolta ero giustificato: le stavo dietro. Nessuna volgarità, no, camminavo qualche metro alle sue spalle. Ma lei era bella anche vista di schiena. Anzi, soprattutto vista di schiena. A questo punto si starà già insinuando la vocazione maniacale del pedinamento. Niente di tutto questo, io andavo per la mia strada, lei per la sua. E fu solo un caso se queste si incrociarono davanti ai miei occhi come un'illuminazione: saremmo perfetti insieme, lo siamo già!
Avevo sciolto la camminata come si fa quando si procede senza una destinazione, l'avrei seguita e basta. Già mi immaginavo la sordità del piacere spudorato e istintivo dei primi baci al chiaro di luna, le albe divorate dal desiderio, i sorrisi incontrollati nel triste silenzio dei luoghi pubblici, la felicità del rivedersi dopo la noia del lavoro, l'esordio diffidente tra me e i suoi genitori, il matrimonio, i figli, l'impegno ad invecchiare con stile.
Si, forse mi sono lasciato prendere dalla fantasia. E chiesi scusa soprattutto a lei, a questa nuca bellissima che non volevo sciupare, a questi sentimenti esplosivi che duravano da quattro porticati. Era una storia che stava nascendo forte e sincera, lo avvertivo nel suo sguardo furbescamente consapevole. Che non vedevo.
Ecco ora il racconto del momento in cui l'ho fermata e messa a conoscenza del nostro ormai datato rapporto, si penserà. No, altro errore. Lei ha continuato a scivolare dolcemente con i suoi jeans sull'asfalto, ed io a calpestargliene l'ombra, sorta di originale primo approccio. Dopo ciò lei non avrebbe più potuto dire di non conoscermi, di non aver passato con me dei momenti importanti. Eravamo lì: i miei piedi sul riflesso della sua testa. Una cosa sola.
Ho camminato non so quanto, dentro un'umidità irriverente, e all'ennesima fermata autobus superata avrei quasi voluto prenderle la mano per provocarla: "Credi davvero che la nostra storia non meriti non dico un viaggio di piacere, ma quantomeno un passaggio? Un aiuto?". Ma non volevo pensasse a una mia intenzione di tarparle le ali, di imporre decisioni. Così mi sono rilassato, e ho accettato in silenzio di proseguire. Aveva scelto ora, luogo e modo del nostro incontro: dovevamo camminare e fantasticare. Per costruire. Lei era la mente, io la gamba.
Quindi è entrata in un bar, e naturalmente l'ho accompagnata. Ha preso un succo, io un caffè. Non sono riuscito a guardarla, eravamo distanti. Ma ho fissato per tutto il tempo i suoi piedi, che con smorfie di fastidio esprimevano il chiaro desiderio di fermarsi, stanchi per aver vissuto una mattinata, e forse una vita, a non ricambiare un'attrazione così evidente.
Uscita dal bar, ha attraversato semplicemente la strada e ha citofonato al portone di un numero civico di cui non ricordo le cifre, ma che sono sicuro fosse dispari. Lì realizzai che il nostro appuntamento di quel giorno era al capolinea, e che non avevo ancora fatto nulla per accertarmi ve ne sarebbe stato un altro. Dovevo intervenire.
Restai immobile a guardarla entrare e sparire in un androne. Se ci ritroveremo ombra nell'ombra, pensai, vorrà dire che aveva sentito ciò che avevo sentito anch'io.
"E poi?", mi interruppe lei, come a voler risentire un finale già noto.
"E poi lo sai: ho preso l'autobus, sapendo che tutta quella strada a piedi le tue gambe non l'avrebbero retta di nuovo."
"Vuoi dire che mi hai ritrovata per questa botta di culo?!"
"Se così lo vuoi chiamare..."
"E come devo chiamarlo? Se non avessi preso l'autobus non mi avresti rivista. Mi avresti seguita di nuovo?"
"No."
"Quindi hai solo lasciato scegliere il destino."
"No, ho lasciato scegliere te. L'inerzia è mezza bellezza. L'altra metà sei tu."