sabato 27 dicembre 2014

Dite ad Apollonio che la verità è noiosa

Basta, Apollonio!
Basta con questa faccia, quest'espressione con cui tu sembra voglia vendere ogni giorno la felicità che non hai!
La tua ironia non è la benvenuta qui. Anzi, è odiata. Abusata. Rinnegata da chi anche solo una volta ha fatto la cazzata di dire che potevi far ridere, maledetto lui! E quello che non t'ha scritto che sei un povero fallito, è uno che ha sprecato la sua possibilità d'essere utile al mondo.
Sei simpatico come una pietra nella scarpa che potrai togliere solo una volta arrivato a destinazione.

Apollonio non ce ne frega un cazzo dei tuoi nipoti. Hanno l'età, gli spazi tra i denti, la fedina penale e l'innocente stupidità di milioni di bambini. Hanno solo la sfiga di partecipare alla tua esistenza, quindi poverini non sono nati neanche ricchi. Non gliela far ricordare questa infanzia. Cancella foto e post. Regalagli l'anonimato che meritano.

Ma poi: cosa ti ha fatto di male la mediocrità?! Cosa abbiamo fatto di male noi, per essere ricoperti di ogni fottuta briciola del tuo ego che si fa strada?! La tua serata bellissima, la tua conquista fantastica, il tuo panorama, Apollonio, hanno avvinghiato come morsa i miei testicoli, fino a divorarli, fino alla rabbia cieca che non è invidia soltanto per non darti il diritto di crederti meglio di ciò che credi d'essere.

Si può asciugare il sudore dalle foto, Apollonio, o si può proprio evitare di sistemarle in pubblico come fossero autocertificazioni della quotidiana fatica dell'obbligo al divertimento. Non so se lo sai, ma ho chiesto in giro: si può vivere senza mani, se le usi per pubblicare la firma della tua noia.


E invece no. Ci sei anche stasera sul podio della banalità, con questi ritratti di bicchieri, con la tua ragazza e la tua borsa, con tua madre e con il tuo presente presuntuoso, con la differenza fra il credere e il credere di pensare. E con questa mania dell'opinione.

sabato 6 dicembre 2014

Più breve è il respiro, più lungo è l'urlo

05 dicembre 2014

Un urlo. Ho visto la luna, e ho urlato.

Prima ho visto Luana. Alla seconda o terza volta allo stadio a Foggia, lei è salentina, cosa ci facesse nella nostra Curva Nord lo sanno solo lei e il suo ragazzo, foggiano. Anzi, malato. Del Foggia. Non l'ho guardata proprio, l'ho piuttosto usata come scudo: se resti in piedi, vuol dire che non è successo un cazzo.
Prima ancora ho visto Luigi. Che aveva urlato: "Se segnano, mi getto di sotto". Non l'ho mica preso sul serio, ho solamente sperato di ritrovarlo venti metri giù qualche secondo dopo.

Non è successo niente, ed è successo tutto. Cosa vuoi che sia un gol? Prova a toccarmi la braccia e il petto adesso: sono le 3, sono passate quattro ore da quando ho lasciato lo stadio, e tremo. Tremo, sì, i brividi sono comparsate irruenti sui muscoli, gli arti stanno al loro posto per dovere di normalità, ma se potessero, partirebbero.
Sto resistendo, ogni minuto sarebbe buono per urlare il mio godimento, ma resisto. Ho camminato solo per via Arpi, indugiando gli sguardi nelle vetrine vuote e nere, o sotto i lampioni arancioni; ho fissato il pavimento bucherellato e bagnato; ho finto di salutare persone note; e tutto per non urlare, per non divaricare le braccia al cielo e invocare pietà per la mia anima di tifoso meritatamente felice.

Cazzo, quella palla! È entrata lì dove doveva, non un centimetro di più non un di meno. Vista dalla prospettiva del tiratore e del portiere è stata una perla, vista dalla parte del settore è stata una feroce istigazione al delirio.
Immaginate una camera di fogli, sparsi dal vento prepotente soffiato da una finestra spalancata: ecco la curva, subito dopo il rumore sordo della rete, accompagnato solo dall'eco dell'esultanza che aggira la circonferenza degli spalti per aggregarsi alla tua voce. Istericamente entusiasta. Liberata come si libera una scoreggia in campagna, o uno sputo nell'universo.


Impazzire, letteralmente, dall'entusiasmo. Essere sopraffatti dalla verità dell'istinto, spesso scomoda, oggi ineffabile. Un'esplosione devastante. GOOOOOLLLLL!!! Dov'è il Diavolo? Dove sono i santi inquisitori? Dov'è il dolore? Dov'è la tristezza? Tutto in una palla, la multa del nostro desiderio mai appagato è stata strappata. È cancellata.
L'arco disegnato idealmente supera la barriera ed entra nell'angolo, la sincerità del cronometro dice 90esimo, le maglie rossonere sono sparite ad esultare, io sto facendo l'amore con la gravità, ho i piedi per terra e la testa sulle nuvole: Foggia-Lecce 1-0.

Riacquistare la calma è una concessione al senso di realtà, faticosa, forzata, bugiarda. Quanto manca? Non lo so, invento "5 minuti" che si moltiplicano in maniera asfissiante, quasi offensiva. Tanto che in un diametro di questo spazio infinito, un paio di lontane e felici sagome rossonere infilano l'azione del 2-0.
Come? Quando? Perché? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo bene?!... Vorrei chiamare, vorrei chiedere, vorrei spiegare, vorrei amare. Sono pure ubriaco, ma non so più se c'entra l'alcool, io ho perso la testa.
Di fronte ci sono quelli forti, ormai campionati luce distanti di noi, nel primo tempo potevano fare tre gol, con un solo giocatore venuto dalla Serie A, Moscardelli. Ora sono come arresi all'evidenza, che dice li stiamo battendo.
Anzi, li abbiamo battuti. Abbiamo vinto. E mi pare quanto di meglio sia mai successo, anche se non so se nella mia storia di uomo o di tifoso rossonero. Perché spesso, infatti, sono la stessa cosa.

martedì 2 dicembre 2014

Quel vento che mi ha spiegato la morte

25 agosto 1994

Un piede dentro casa, poi l'altro, l'ultimo sguardo al cielo, la chiazza nera è alta e allo stesso tempo sempre più vicina, l'aria puzza di polvere bagnata, tiro la corda della serranda avvolgibile.
Che fa un primo scatto, e inizia a chiudersi: l'infermiera vuole meno luce, siamo pur sempre in un reparto di terapia intensiva, attorno è il silenzio, solo una mano nella mano.
La mia, quella sinistra, è qualche centimetro sopra la destra nella presa del cordino della tapparella, ma non tirano, entrambe ferme come me a misurare la potenza del vento dal numero di buste e carte che hanno fatto cono e si rincorrono sempre più vorticosamente sul terrazzo. Un altro scatto verso il basso.
L'avvolgibile si abbassa ancora, ché questa luce sporca e rumorosa fa paura anche a chi finge di dormire. Da quanto è qua non lo ricordo, ma sua sorella le stringe le dita come un guanto. Com'è pallida! Sono tutti pallidi su questo piano, l'assenza spaventa, e anche i pianti restano soffocati e disorientati sotto gli occhi.
I miei si fanno fastidiosi, deve esserci entrato qualcosa. Lo sporco di questa ribellione atmosferica fa tremare le sagome degli oggetti e la mia epidermide, si chiama "pelle d'oca", mezzora fa ero in strada a correre e sudare, ed ora gioco ad aspettare la fine del mondo. E chi l'aveva mai visto questo demonio? Abbasso ancora.
L'avvolgibile scende pure nella camera d'ospedale, è entrato il dottore, "chiudete tutto", la cappa crollata sul cielo di fuori si è presa pure l'aria di dentro. Come è immobile lei, sul letto, quanta vita in quei capelli biondo oro, se si fosse svegliata avrebbe fatto tuonare il palazzo con una risata di felicità, e appresso a lei tutti i familiari ora devastati. Ma non succede, resta il buio.
Quello della mia cucina si fa spettrale: sono le 12e30 e sembrano le 21, quelle di una spiaggia buia con il mare infestato di ombre di nero, e la sabbia che ha deciso di emigrare dal suolo e prendere il volo. La serranda è tutta giù.
Quella della terapia intensiva da un pezzo. Il vento la agita, vorrebbe scardinarla, è chiaro: una donna di questa bellezza in coma è un disonore per il creato. Ave Maria, si prega, ma dal cielo inizia a scendere solo acqua. Nessuno è perfetto.
Neanche il senso di chiudersi in una camera, come sono rinchiuso io in cucina, mentre la città di là si sta aprendo, ed io qua non posso fare niente, perché ho pensieri solo per Lei.

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Che ha visto alberi abbattersi, raffiche ululare, fulmini martellare, fratelli piangere e figlie maledire.
Zia, quel giorno di agosto, una tromba d'aria, e tu che non hai aperto gli occhi, avete reso tutto più grigio.