martedì 28 giugno 2011

Gocce di poesia - Atto V

ME RIVERSO

Sono quello che resta sul fondo della bottiglia.
Sono l'anima, il pensiero, un'idea che non mi somiglia.
Sono il fine che giustifica i mezzi e le mie parole.
Sono il cane seduto a fare la guardia, e sono il padrone.

Sono l'unico peccato felice d'esser mortale.
Sono il sintomo di un virus di cui ti vorrai infettare.
Sono il cinico che scambia per vizi le sue fortune.
Sono il comico, costretto a cantare le sue paure.

E sono gli occhi,
di un timido scemo;
e del buffone che ride di meno;
e poi di un vile,
che è condannato
a descrivere ciò che ha pensato.



venerdì 17 giugno 2011

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo IV

 - SOLO, SEMPLICEMENTE, ECCESSIVO -


Ed ora cosa le dico?”.
Lo pensava, Apollonio, e continuava a ripeterlo a se stesso mentre le mani strofinavano a più riprese una barba vecchia di settimane, e la testa oscillava verso sinistra, appoggiandosi al vetro di quell’autobus su cui era salito solo per dimenticare la pioggia battente che improvvisa aveva preso a cadere sulla città. Una roba che Apo detestava (la pioggia, non la città, in questo caso) e giudicava male per una vecchia frase di suo nonno: “La pioggia è un cattivo esempio. Se non ti tocca, non ci pensi; puoi anche fissarla, ma è come se non esistesse più.
Apo non ricorda molte cose di suo nonno materno (e neanche una del padre di suo padre, che morì ancor prima che lui nascesse), ma ad ognuno di quei pochi frammenti ha dato un valore preciso, importante, fondamentale. Come il ricordo di quell’unica volta che vide suo nonno andare allo stadio. Una domenica piovosa, sempre la solita maledetta pioggia, e Apollonio che arriva allo stadio insieme al nonno e a un altro cugino, col nonno che decide però di andare a seguire la partita in un altro settore, da solo.
Apo questa scena non l’hai mai dimenticata: il nonno, un tipo che ha sempre amato la compagnia, quel giorno aveva preferito vivere in assoluta solitudine quell’ora e mezza di calci e urla, ossia quello che è il rito comunitario per eccellenza secondo la maggior parte degli abitanti maschi di questa nostra Italia. Lui, da solo, in mezzo alla folla: un’elegante manifestazione di libertà, e un’immagine indelebile per Apollonio, che ancora oggi sceglie di vivere in disparte tutte quelle esperienze in cui è la moltitudine a farla da padrona.

Ma il passato è passato, e Apo, seduto sempre in quell’autobus, continuava a martellare se stesso chiedendosi: “E adesso cosa le dico?”.
Intanto la pioggia aveva quasi smesso di cadere, forse offesa da quei giudizi che Apo aveva ripreso da suo nonno e che aveva fatto subito suoi, indossandoli così com’erano, proprio come farebbe una giovane nipote con un vestito antico e bello ritrovato nell’armadio della nonna. Ma non ci fu neanche il tempo per il vento di spazzar via le nuvole grigie d’acqua, che improvvisamente si palesò, invadente, un ritardatario sole d’aprile. Inopportuno come sanno essere solo certe beffe.
Ma anche col sole Apollonio era sempre lì, testa poggiata al vetro del pubblico trasporto, intento a stracciare le vesti delle sue sinapsi, sconfortato com’era per non aver trovato ancora una risposta al quesito che ormai sapete bene anche voi. Questo formicolio di negatività e insoddisfazione era però destinato a dissolversi ben presto dalla sua testa, e bastò poco, o forse tanto, perché ciò accadesse.
Bastò un arcobaleno, uno dei più classici. La striscia di colori sorprese infatti Apo, e gli impose una riflessione; una riflessione anche banale, ma doverosa. Come quando sbatte una finestra: ritieni sia un evento privo di importanza, eppure ti ha sorpreso, non te l’aspettavi; e tanto basta per dedicarvi quanto meno un pensiero veloce, anche per far sì che non si ripeta più. Ecco l’arcobaleno è più o meno questo, solo molto più bello.

La pioggia, suo nonno, lo stadio, il sole, l’arcobaleno, la finestra che sbatte. E poi il quesito, la solita insoluta domanda. Chiacchiere buone per occupare minuti bianchi come fogli vuoti, i minuti che Apollonio passa sull’autobus. Minuti che poi finiscono, perché l’autobus, prima o poi, alla sua o alla tua destinazione ci arriva. Ed Apo quasi non se n’era accorto di essere arrivato dove doveva arrivare. Scese alla fermata, fece cinquanta passi, guardò l’ingresso di un numero civico e i negozi che vi erano posti accanto, poi scorse velocemente i cognomi sul citofono, quindi vide il portone aperto e si decise ad entrare.
Due rampe di scale a piedi, perché l’ascensore lo prendono i vecchi, e si ritrovò davanti a una porta a pensare per l’ultima e decisiva volta: “E che cazzo le dico?”. Per inerzia, ma forse senza volerlo veramente, suonò il campanello. Poi aspettò, come si aspetta una sentenza della corte. Ed ecco che finalmente la porta si schiuse, e ad accompagnare la porta c’era lei: Ines.
Il buio avvolgeva la testa di Apollonio come il pallino sfocato in una foto copre il volto di un bambino che meriterebbe molta più privacy. Apo fino a quel momento non aveva messo assieme alcuna frase coerente e coesa, e niente faceva pensare che nel breve sarebbe riuscito nell’impresa. Ma poi, al tempo fulmineo della smentita di un politico, aprì la bocca e le diede fiato; e quasi senza accorgersene, come fosse ventriloquo di se stesso, disse:

-         Ines, prima ho visto un arcobaleno e ho pensato a te. Perché mi sei capitata tra le braccia proprio come cade tra le braccia della terra un arcobaleno: bello e improvviso.

Ines sbiancò. Forse l’emozione, forse l’imbarazzo, forse la paura di non saper pensare anche lei una risposta adeguata al contesto. Poi però a quel pallore in volto fu attribuita la giusta causa: la paura. E non appena tirò fuori voce e parole, tutto di lei fu più chiaro:

-         Ma chi sei? Cosa dici? Cosa cerchi da me?... Perché sei qui??

Apo avvertì un colpo di pistola tra mille pugnalate quasi attese, e fra i due iniziò un breve scambio che lo vide capitolare dopo poche riprese:

-         Ines, ma sono io: Apollonio. Abbiamo parlato fino ad un’ora fa su quella chat!
-         Tu sei pazzo! Io non ti conosco, devi andartene!..
-         Ma sono io, cazzo! So tutto di te, parliamo ogni giorno, e tu sai tutto di me. S’era detto che presto ci saremmo visti, ma io non ce l’ho fatta, ed eccomi qua ora. Cos’hai? Che ti è successo?
-         Tu non ci sei, non sei qui, e se sei qui non sei nessuno. Io parlo tutto il giorno con “ApoLux”, che non sei tu! Lo capisci?!..

Così dicendo si allontanò un istante, per recarsi presumibilmente al suo pc, visto che si ripresentò subito all’uscio più irascibile che mai:

-         Perché? Perché non c’è ApoLux lì sullo schermo? Cosa hai fatto?... Perché sei qui?..
-         Ines, tutto questo è assurdo.
-         No, l’unica cosa assurda è che tu abbia rovinato il mio rapporto con ApoLux! Io mi fidavo di lui, e adesso grazie a te è tutto finito. Lui non c’è più, e tu sei qui e mi parli con le sue parole, con le sue pause, con la sua faccia, con la sua anima..
-         Ines, ma..
-         Basta, vattene via! Non so chi sei e non mi interessa. Eri un nome su quel cazzo di monitor, mi trovavo bene a parlare con te. Un giorno forse saremmo stati anche pronti per vederci, ma senza alcuna certezza, perché io volevo solo sentire una voce vicina, una parola, un’idea, qualcosa da cui non dover rintracciare per forza fiducia, ma solo tanta comprensione. Invece tu hai lasciato quel computer per venire qui, credendo ti fosse dovuto qualcosa che andasse oltre quella chat. Perché non mi hai compreso, e non mi comprenderai mai più.

Apollonio sparì dal pianerottolo a passo di zombie. Schiantato come un insetto sul parabrezza dell’auto. La realtà aveva mostrato una delle sue tipiche crepe, quelle in cui ci si infilano alla perfezione i paradossi dell’uomo contemporaneo. La conoscenza senza conoscersi. Il parlare senza parlare. Il sentire senza ascoltare. Condividere senza che ci sia nulla da dare.
Tornato a casa, Apo distrusse ogni traccia della sua presenza su quella e altre chat a cui era iscritto. Più ci ripensava, e più quello che era successo quel giorno gli pareva meno triste di quanto non potesse immaginare. S’era preoccupato per tutto il tempo del tragitto di cosa avrebbe dovuto dire per fare una bella figura, e non aveva minimamente pensato all’idea che potesse non interessarle che lui avesse qualcosa da dire.

Apollonio allora pensò che era quella la vera natura dei legami fittizi della rete. Presupporre negli altri un interesse verso se stessi e le proprie opinioni, che però non c’è quasi mai. Chiudersi in recinti di amici definiti, per affrontare la moltitudine con più spavalderia. Illudersi di dover avere sempre qualcosa da dire. Su tutto, su tutti.
E pensò che questo non è stupido, ma solo brutalmente e drammaticamente eccessivo.
Quindi pensò a suo nonno, a quando andò ad assistere alla partita da solo. E si ricordò che quel giorno gli aveva fatto capire che essere uno tra tanti è l’unico modo per non essere nessuno.


domenica 5 giugno 2011

Il giorno in cui il passato tornò ad essere passato


"C'è qualche cosa di sbagliato nell'amore, c'è che quando finisce porta un grande dolore.."
Lo cantano i Marlene Kuntz. Parole che mi sono tornate in testa oggi allorché, per la prima volta nella mia vita, ho sentito dei foggiani accostare il nome di Zdenek Zeman a concetti oscuri come "tradimento" e "irriconoscenza". Anzi, più che concetti oscuri, vere e proprie accuse, pesanti come quei dubbi che neanche l'evidenza dei fatti riesce a lavare via. Macigni pieni di rabbia e sconforto, un impasto su cui purtroppo si reggono molte coscienze foggiane.
Un allenatore che lascia una squadra di calcio è uno degli avvenimenti più naturali del mondo. E a nessuno verrebbe mai in testa di chiedere motivazioni, implorare ripensamenti, decifrare sospiri e espressioni facciali: roba da tifosi. Folli adepti di una religione che, come tutte le manifestazioni di culto, ha anch'essa i suoi profeti, i suoi totem e le sue divinità.
Ci sono quelli, pochi, che celebrano indiscutibilmente la "maglia", emblema di quella tradizione che si autopreserva da sé, per il solo fatto di esistere, indipendentemente da chiunque le renda onore o disonore.
Ci sono altri invece, meno integralisti e purtroppo un po' più numerosi, che legano l'appartenenza alla propria squadra del cuore all'esistenza di un progetto almeno in prospettiva vincente, spesso attendendo da un campo di calcio quelle soddisfazioni che la quotidianità stenta a regalare.
E ci sono poi tutti gli altri, il resto dei tifosi insomma: più o meno attaccati; più o meno costanti; più o meno partigiani; accomunati da un solo grande tratto, quello di restare emotivamente ed idealmente legati ad alcuni dei personaggi entrati a far parte nella storia della loro squadra. Ai limiti dell'idolatria.

Ecco, l'idolatria: Zdenek Zeman a Foggia non è, e non sarà mai, un personaggio "normale". Merito o colpa di chi ha vissuto l'epoca d'oro della macchina da gol che regalava spettacolo sui campi verdi di tutta Italia.
La memoria non è un delitto. L'esaltazione di una realtà provinciale a laboratorio filosofico e pratico di un nuovo modo di fare calcio, con addirittura l'invenzione di un nome, "Zemanlandia", che servisse a identificare la residenza di un non-luogo; le soddisfazioni nella massime serie di una squadra ciclicamente destinata alla terza serie; la sorpresa, per il calcio dello spreco forzato dell'epoca, di un club povero che arriva a mettere paura con le sue risorse limitate; tutto ciò non è fantasia, è stato vissuto sulla pelle da molti. E seppure la retorica abbia esasperato col tempo certi elementi della storia, attribuendogli un valore mitico ai limiti del ridicolo, sarebbe altrettanto ingenuo non riconoscere ciò che è stato il calcio a Foggia negli anni di Zeman. In una sola parola: gioia.

Dopo di lui, che torna anche come spartiacque storico, le gioie per i tifosi rossoneri son state sempre meno, e sempre di più sono stati invece i rischi di vederlo chiuso una volta per tutte questo baraccone chiamato Us Foggia. D'altro canto anche Zeman ha collezionato più infortuni che applausi, e di lui s'è finito per parlarne più fuori che dentro il campo. Ma in tutto questo susseguirsi di annate più o meno deludenti, con la sorpresa negativa sempre pronta a far la sua parte (Avellino, 17 giugno 2007), per questa città il nome di Zeman è sempre rimasto lì, intonso, chiuso nella teca come le reliquie di un santo, e pronto ad essere tirato brutalmente in ballo ogni qualvolta si palesasse l'opportunità di sperare in una rinascita sportiva.

Poi, il 14 luglio 2010, a Foggia succede ciò che si riteneva impensabile: di nuovo il patron (che per forza economica ora è piuttosto un "garzon") Pasquale Casillo; di nuovo Peppino Pavone; di nuovo Zdenek Zeman. Di nuovo "Zemanlandia"? No. Forse un abbaglio, buono solo per tirar su qualche copia dei giornali; sicuramente una stagione positiva, ma niente di ché.
D'altronde, rimarcherebbe qualcuno, come si può rifare qualcosa che non è mai esistito?! Sarebbe come voler rifare lo stesso sogno fatto anni addietro. Gli innamorati dell'allenatore boemo non capiscono: ma come si può non preferire Zeman a qualsiasi altro allenatore sulla faccia della terra? Questione di estetica, di spirito, di virtù dell'uomo prima che del tecnico. A Foggia effettivamente c'è poco di cui gioire, e un personaggio di questo valore è meglio non farselo sfuggire. I risultati sono un dettaglio; ed anche se tutti vorrebbero vincere, all'uomo di Praga si perdona tutto.

La speranza di un futuro migliore colma anche gli appetiti più insaziabili, e per il Foggia Zeman è speranza e insieme garanzia di un futuro migliore. Si chiude gli occhi e si inizia a sognare. Ma qualcosa non va come tutti si aspettano, com'era logico che fosse per ricreare "Zemanlandia2", e non si fa in tempo a riaprire gli occhi che tutto pare un incubo. Inutile rifare la cronaca: il mister lascia il Foggia e i foggiani.
Una piazza intera ci rimane di stucco. Non capisce. E' durato tutto troppo poco, dev'esserci un errore. La realtà a volte si sbaglia, rimandate indietro la giornata, non può essere. Invece è così: Zeman ha deciso, molto semplicemente. Perché semplice è la vita delle persone.
Ma se alle persone si sostituiscono i miti, le divinità, gli esseri sovrannaturali, capire diventa più complicato. Quasi impossibile. Come chiedere a dio: perché mi hai abbandonato? La fede è la risposta a tutto. Devi accettare il destino. E invece no! C'è sempre un punto in cui l'idolatria arriva a far pugni con la realtà: bisogna richiamare l'attenzione, fare di più, offrire il vitello più grosso, sicuri che prima o poi la storia riprenderà il suo corso regolare. Follia. Pura, sincera e rispettabile, ma pur sempre follia.

Poi arriva il colpo duro, quello dell'ufficialità completa, la più difficile delle prese di coscienza, stazione ultima di ogni ossessione. E lì, dove in alcuni è diffusa solo una cocente delusione, mentre in altri vi è addirittura una paradossale negazione dei valori di colui che fino al giorno prima era innalzato al rango di "Messia", si fa largo per i più idolatri una vera e propria epifania della morte. C'è da elaborare un lutto, qualcuno è venuto a mancare, la sensazione è che tutto attorno stia scomparendo, nulla ha più senso.

E invece è successo l'esatto opposto. Una rinascita, aldilà della serie in cui si giocherà.
Zdenek Zeman non aveva mai lasciato Foggia. Il 1994 è sempre parso qui dietro l'angolo, pronto a riprendere il suo cammino alla prima occasione buona. Il passato aveva smesso di essere ricordo per essere invece misura e forma di ogni possibile futuro. La gloria di un'era idilliaca aveva trasformato in agiografia i limiti e le peculiarità di un uomo. Pulito, intelligente, preparato, ma pur sempre soltanto un uomo.


Quell'uomo che oggi, dopo 17 anni, ha davvero abbandonato Foggia. E l'ha liberata da un'ossessione.
Grazie Zdenek.