sabato 18 febbraio 2012

Gocce di poesia - Atto VII



LONELY SLOW FOOD

Metti a bagno i ricordi e gli umori,
affetta i sospiri,
grattugia la buccia di ogni tua ferita.

Innaffia quei fogli con del buon dolore,
poi mischiali alle tue immagini
e sciogli un magone.

Ricorda di spegnere i dubbi nel forno,
o domani, se bruciano,
resterà puzza di rimpianto.

Negli occhi l'acqua ormai bolle.
Puoi buttare le lacrime:
quante ne vuoi, sono solo per te.

Un pranzo ha bisogno di tempo.
Poi, quando sarà pronto,
ti sarà servito tutto.

Tutto.


lunedì 13 febbraio 2012

Mi faccia una domanda, si dia una risposta.


"Scusa, è stata una giornataccia. Ma l'intervista la facciamo lo stesso, dammi solo un momento."

Inizia così la chiacchierata con Saverio Abele, mio amico, nonché vicino di casa, nonché l'ottantenne meno rugoso che abbia mai conosciuto. Sa che questa intervista non andrà su alcun giornale, rivista o quotidiano che sia, e nemmeno su qualche sito d'informazione letto da più gente di quanta non ne abiti nel nostro condominio.
Saverio non chiede neanche il motivo di questa mia assurda richiesta, in fin dei conti gli ho solo proposto di rispondere a qualche domanda, sa che ne scriverò sul mio blog, ma per lui, giustamente, è come se prendessi appunti per un quaderno che leggerò soltanto io.

Il signor Abele ha 79 anni, vive a Roma da cinquanta, è originario di Barletta, ha sempre lavorato come portiere d'albergo, adesso è in pensione. Beato lui, che se la goda. Mi da' l'impressione di quello che ha faticato tanto nella vita. Certo, con le impressioni non si fa molta strada; ma siamo solo lui ed io, e tutti e due usiamo la stessa moneta.
"Tu non hai ancora ben chiaro cosa fare da grande", mi dice, allungando l'indice come se stesse controllando con quel dito la consistenza dell'aria tra di noi. Gli rispondo che è vero, ma che forse non si è sbilanciato poi così tanto. Vorrei domandargli del perché non porta la fede al dito, rinunciando stupidamente alla semplice idea che quella signora che abita con lui possa non essere la moglie.

Saverio sorride, ho fissato la sua mano troppo a lungo per non cadere nel tranello di una domanda spinta fuori a forza dalla curiosità, piuttosto che dal coraggio di svelare ciò che in altri potrebbe esser sepolto volutamente sotto strati di lento oblio.
"Vuoi chiedermi se sono sposato, chi è quella donna e, se non è mia moglie, perché non lo è?". Saverio se la ride, mi sento un banale fruitore di impressioni superficiali. Lui continua: "Me lo chiedono tutti, ma una domanda non è stupida solo perché sono in tanti a farla, lo è di più quando quelli che la fanno si sono già dati una risposta da soli."

Non so perché quest'uomo mi metta di buon umore. Sorride poco, quando non mi aspetterei di vedere i suoi denti non più bianchissimi, e i lineamenti facciali tra naso e mento aprirsi in una sorta di rombo. "Agata non è mia moglie, ma stiamo insieme da 44 anni. Non ho mai capito cosa avesse il matrimonio più dell'idea di avere voglia di svegliarmi ogni mattina accanto a lei. E poi quella frase odiosa, 'vi dichiaro marito e moglie': è davvero inaccettabile. Il nostro amore possiamo raccontarcelo solo io e Agata, è sempre stato così e sempre lo sarà. Lei la pensava come me già quarant'anni fa. Che dire: una donna da sposare.."
Stavolta sono io a ridere. E ho pure perso completamente il filo del discorso. Non che avessi chissà quali scalette preparate nella testa, ma sicuramente avrei voluto portare Saverio a parlare dei giovani di oggi (me compreso), di come li vede, della fiducia che gli trasmettono, della finta libertà di cui si fanno manifesto.

Invece non andremo oltre, per oggi. Il signor Abele infatti, che mi ha letto fin troppo bene, fa per alzarsi e mi porge una scatoletta nera di latta, con sopra una foto di Marilyn Monroe. Dentro ci sono delle mentine, ne prendo una.
"Ascoltati di meno, ragazzo, e riposa un po' di più, ché gli occhi non ti stanno in piedi da soli", mi dice, rimettendo le mentine di Marilyn in tasca: "è stata una giornataccia, l'ho capito. L'intervista la finiamo domani."


giovedì 2 febbraio 2012

Andrea. Recensione di un libro mai scritto.


Ha fame di tutte le cose che non ha. Ha fame Andrea, e si lascia sfuggire un'espressione di desiderio ogni volta che fissa un vetro per scorgervi ciò che è dietro. O dentro, come se il mondo fosse un frigorifero.

In realtà Andrea è in un libro, un libro che tratta di precari, di giovani vite precarie, del senso di mancata appartenenza che ci portiamo addosso: niente più classi, nessun ceto, non un mondo di piccoli nodi da tenere stretti. Oggi, che tutto è condiviso, non condividiamo nulla. Se non la stessa camera da deportati, con le pareti tutte uguali e sui muri non un buco, una scritta, un graffio, un segno di riconoscimento. Nessun riferimento.
Gli ufficiali del Regno del Caos ci guardano da fuori, controllano che tutto sia a posto, il gas del disorientamento sta per essere aperto. Ci lasciamo cadere come cade chi si è perso: scivoliamo increduli, più docilmente sconfitti che tristemente disperati. Vittime attive di uno sterminio: il genocidio di una generazione.

C'è anche Andrea, certo, non lo dimentico.
La mia penna si posa sul suo sguardo, che si posa su di un foglio appeso al muro: "Laureato impartisce lezioni". Ecco, vorrebbe essere lì, tra quella vita attiva del darsi da fare, tra chi non s'arrende. E invece è già tutto scritto: passerà avanti pure questa volta, si darà per vinto, sentirà ciò che ha pensato una sola volta come qualcosa di già vecchio, di scaduto.

Maledetta la malattia di Andrea. Sentire le proprie esigenze, e non far nulla per soddisfarle; per soddisfare tutte quelle ipocondrie dell'anima che ti fanno fasciare la testa ancora prima d'essertela rotta. Ma la testa Andrea l'ha già rotta: si è lacerata il giorno in cui ha capito di essere nato giovane nel momento storico sbagliato.
Ma ve lo ricordate cosa vuol dire esser malati di gioventù? Quando i nervi si tendono al loro estremo per la voglia di fare; quando i sensi percepiscono tutto il finito, anche il più onesto e puro, come una limitazione; quando vorresti camminare in mille direzioni diverse, pur sapendo che il tuo destino sarà sempre quello di tornare indietro; quando il sangue bolle nel cervello come in una pentola a pressione.
Quando vivi di moto, insomma, non puoi restare ancorato alla corda del timore del vuoto. Non ogni giorno. Non per sempre. E' come cibarsi di novità, ed essere perennemente attaccati dalla muffa.

Le pagine con Andrea sono pagine stanche, già raccontate, prive di guizzi. Chi le orchestra è un maestro di "vorrei, ma non posso". Eppure, a nessun essere con un cuore collegato al cervello verrebbe mai in mente di giudicarle male, anche soltanto per la verità che si portano dentro.
Verità arrendevole, senza sogni di gloria, piena di umili aspirazioni. C'è spazio ancora per una letteratura così? C'è spazio ancora per una vita così? Andrea ha fame, e vorrebbe solo che avere fame fosse ancora credibile.

Andrea è un racconto, o un romanzo, o forse il mio immaginario che si riempie di brividi confusi. Andrea non è certo un libro. Ma se lo fosse s'intitolerebbe:

"ANDREA. LO STERMINIO DI UNA PANCIA E DEI SUOI BISOGNI."