mercoledì 18 marzo 2020

Se fine deve essere


Per ogni fatto che sconvolge la nostra esistenza, ce ne sono almeno due più gravi.


Il camice non va. Troppo stretto, soprattutto di maniche, e non va molto oltre al di qua del gomito. Per fortuna siamo in casa, non dobbiamo assistere nessuno e nessuno può vederci. L'importante è riuscire ad indossarlo per qualche minuto affacciati alla finestra, il tempo necessario ad una canzone corale e a degli applausi. Sentiti. Strepitanti di pena.
Ché non lo sappiamo mica come si esce da questa storia maledetta. Vediamo i morti ed abbiamo paura; cioè non è che li vediamo, li contiamo; insomma non è che li contiamo davvero, non potremmo mai, quindi ci fidiamo. L'ansia ci viene addosso da ogni direzione: rimbalza sulla tv, tocca i giornali, fa sponda con i messaggi delle chat sul telefono, salta fuori dalla finestra e cade per strada, si sparge, la svuota.
Non del tutto, però. Donne e uomini camminano, le auto sfrecciano. I lavoratori vanno dove devono, gli ansiosi dove possono, tutti gli altri dove credono di dover andare. Ma non c'è pietà, in nessun caso. Non sappiamo cosa pensare, con le pantofole ai piedi da settimane, i capelli grigio unto e le giornate che si ripetono uguali una dopo l'altra, ma di un uguale diverso da prima. Incomprensibile, severo. Vissuto negli intervalli tra la paura di un colpo di tosse, la sensazione di una febbre perenne e l'ascolto quotidiano di una nuova spiegazione su cosa bisognare fare, e su quanto sia già troppo tardi per farlo.
Dopo aver intonato l'inno, e aver svestito il camice di riconoscenza, temere la morte è ancora più facile e naturale. Basta incrociare uno specchio o un vetro, mentre torniamo alla poltrona, e riscoprirsi in un lampo per ciò che si è: vecchi. Non così tanto da attendere la fine con inconscia serenità, ma abbastanza da sentirsi parte di quella fascia in cui l'età di un lutto può smorzarne la compassione.
Perché i vecchi muoiono, e noi lo siamo. Ma non tutti muoiono soli, e noi invece lo siamo. Il tricolore fuori non volevamo appenderlo, "Azzurro" non l'abbiamo mai cantata e non sappiamo nemmeno se i nostri vicini di casa sono sempre quelli di due mesi fa. Se solo sapessimo come poter essere utili, ci proveremmo. Ma continuano a dirci solamente che andrà tutto bene, o che al massimo moriremo noi.
Non sarebbe forse così male, poi, andarsene tra questi grandi numeri. Anonimi, dispersi nella massa delle notizie di cronaca. Nessuno a guardarti soffrire, nessuno costretto a piangerti. L'idea che succeda come una di quelle cose che capitano nella vita. Eppure nulla cancella le chiacchiere a sproposito, i grafici senza uno scopo, gli attacchi a chi non può difendersi. E i malesseri si diffondono, superano protezioni fasulle ed occupano l'aria. Abbiamo un incubo: essere ancora vivi al termine di tutto questo e aver paura di mostrarlo, di uscire.
Per questo ci troviamo spesso, ultimamente, a spegnere e smettere di ascoltare tutto. Meglio un libro già letto, meglio il silenzio. Se fine deve essere.