lunedì 6 aprile 2009

A ognuno il suo dolore

Come per tutte le cose che vi circondano, sarete liberi di detestare e disprezzare anche quello che troverete in queste righe. Ma io sono altrettanto libero di fregarmene, essendo nella più totale buona fede e sapendo, nel profondo del mio animo, di aver rispettato quanto più possibile gli oggetti e i soggetti del mio scrivere.
Il problema di fondo è che ho uno strano rapporto con le tragedie. Esse infatti, oltre a suscitarmi quel sentimento di tristezza che è il logico e più naturale derivato di ogni situazione che conti la perdita di vite umane, generano in me una strana, e variamente motivata, irritazione.

In altri tempi, un paio d’anni fa per essere più precisi, la mia rabbia si sarebbe arenata sull’impossibilità di giustificare uno qualsiasi di questi eventi tragici all’interno di un contesto terreno forzatamente condizionato dalla presenza di un disegno divino generale, votato alla salvezza definitiva del genere umano. Non so se ci credessi davvero, fatto sta che mi sforzavo di sperare che fosse così. Fino a che, soffocato dal doloroso conflitto fra l’amore infinito di Dio e la sua intollerabile delega di responsabilità davanti ai grandi drammi dell’uomo, non potei fare altro che recidere ogni legame tra me e la fede incondizionata verso enti sovrannaturali. Che si impegnino ad essere più credibili la prossima volta!..

Da quel momento ho cercato, e cerco tuttora, di affrontare ogni episodio triste e negativo con una convergenza tutta personale di razionalità, intima partecipazione emotiva, e pochi principi “morali” (del tutto singolari) che esulano innanzitutto da qualsiasi scadimento in una superficiale condivisione retorica del dolore.
Ma nonostante la coerenza di fondo che riscontro in questo mio modo di affrontare le tragedie, non viene purtroppo meno la rabbia per quelle incongruenze, di matrice non più religiosa, che impediscono comunque una sana percezione di ciò che s’è tristemente verificato.

Una di queste incongruenze è l’utilizzo abusivo del termine solidarietà. E non solo del termine, ma anche del principio generico di solidarietà, che per molti si esplica in ogni semplice manifestazione di riconoscimento della tragedia. Ma non è così, non può essere così!
Solidarietà significa sporcarsi le mani, immedesimarsi materialmente nel disastro altrui, provarne le conseguenze più dirette, viverle sulla propria pelle. Questa è la solidarietà. E non invece lanciare messaggi sul web, coagulare la propria tristezza in poche battute preparate per un brevissimo istante di inutile commozione da spot pubblicitario (vedi la tv), o anche spendere pochi euro quasi per sciacquarsi la coscienza in nome di quell’infondato senso di colpa che nasce quando non si è stati toccati da un simile infausto evento.
Chiaramente non si tratta di definire tali atti come cattivi o riprovevoli, ma vorrei tanto che non si scambiassero queste espressioni di sensibilità con la vera e propria solidarietà, che ha altro valore e ben altra importanza!

L’altra fonte di tensione nervosa in questi momenti è la banalità del contemporaneo, che dentro di me va a cozzare contro l’idea della “tragedia dimenticata”, ossia della priorità di un morto rispetto ad un altro, di un male rispetto ad un altro.
E’naturale che ciò che accade più vicino a noi ottiene quell’eco mediatico maggiore che porta a sentirne maggiormente la gravità; ma è ingiustificabile che si ignorino tragedie di entità simile, quotidiane e costanti, per il solo motivo che albergano in regioni del mondo distanti (spesso più idealmente che geograficamente), in cui la sofferenza, la guerra, le malattie, i disastri e quant’altro possa rovinare l’umanità, sono eventi talmente diffusi da ritenerli ormai scontati e per questo di scarso impatto drammatico!

Questa condizione mi irrita notevolmente, ed ecco perché, in occasioni come la tristissima giornata odierna, il mio svagato pensiero si rivolge ad altra gente che scorre dentro un numeretto, sotto la voce “morti in Iraq”, nei titoli rimpiccioliti di un tg che è giustamente impegnato a parlar d’altro. Però anche loro sono morti innocenti; anche loro non meritavano quella fine; anche loro pagano probabilmente le colpe o quantomeno le carenze di responsabilità altrui, anche a loro dovremmo donare un pensiero sinceramente commosso.
Allora mi viene di ricordarli, per di più in maniera stizzita (perché ho un brutto carattere..), e colgo quindi le ovvie contestazioni di chi mi ascolta o mi legge: non era il caso!..

Ma non me ne frega niente. La vita è vita, ed io sono incazzato!

giovedì 2 aprile 2009

Dialogo con me stesso - I

ME(1) - ..Ma sei scemo?!
ME(2) - È una domanda retorica?
ME(1) - No.
ME(2) - Allora sono scemo!

E iniziò così il dialogo tra me e me. Che se già un “me” soltanto è nocivo; figuratevi due!..

ME(1) - Vorrei liberare la verve che c’è in me..
ME(2) - Senti se è una malattia continua a tenerla dentro, così non fai danni!
ME(1) - Sei il solito cretino, devi sempre squalificare il discorso. Anche se in fondo non hai poi tutti i torti, sai!? È quasi come una malattia, è una forza positiva che però mi genera infelicità e scoramento.
ME(2) - Si scusa, ma quale malattia è una forza positiva?
ME(1) - Cazzo ne so io!
ME(2) - Ok, allora io sarò pure squalificante, però tu non sai cosa dici!
ME(1) - Può darsi. Ma sarò mica il solo su questo pianeta?!..
ME(2) - Beh, in effetti sei in ottima compagnia.
ME(1) - Grazie, lo prendo come un complimento.
ME(2) - Grazie un cazzo! Ti sbagli. Mica sei tu a decidere se ciò che t’è stato detto è un complimento oppure no! Chi ti credi di essere, Borghezio?!...Sono le intenzioni di colui che parla a dar valore a quel che viene detto.
ME(1) - E questo chi lo sostiene?
ME(2) - Beh, m’è parso d’averlo letto sull’ultimo saggio del ministro Gasparri dal titolo “Offendimi! Tanto non ti capisco.”
ME(1) - Ah ah ah, bella questa! Comunque non ti capisco, com’è che non posso rivalutare soggettivamente ciò che mi dici?
ME(2) - No che non puoi. Prendi ad esempio Berlusconi, il primo che m’è venuto in testa...beh, quando in ogni comizio lui inizia ad accusare i suoi avversari di “comunismo”, tu cosa pensi?
ME(1) - E cosa devo pensare!? Che è una frase senza senso. È solo populismo allo stato brado.
ME(2)Grassetto - Ok, ma andando oltre la semplice frase, cosa ti viene più da pensare?
ME(1) - Mah, è assurdo. Però potrei pensare che lui, identificando la parte avversa con uno termine in cui non tutti i suoi nemici riescono a riconoscersi, finisce col dividerla all’apparenza mediatica e all’opinione pubblica. Oltretutto c’è chi, fuori da ogni ragionevole realtà, si definirebbe un “comunista” pur di stargli sempre e comunque contro. Ed io sono uno di questi..
ME(2) - Sono d’accordo con te, ma non è questo il punto focale. Per lui “comunista” è un’offesa! Non puoi fuggire alla sua regola mentale coi tuoi personalismi! Ormai ti ha posto la targhetta di seguace di Pol Pot e Stalin, e questo è un punto a tuo sfavore.
ME(1) - Cazzo, è vero!..
ME(2) - Capisci ora? Per sapere cosa intendono gli altri quando parlano di te, devi entrare nella loro testa e nel loro schema mentale! Non c’è altra strada. Non puoi soffermarti sulle tue certezze. Prima o poi perderanno di senso.

ME(1) - Capito. Ma non è che staremo prendendo una piega un po’ troppo simil-seriosa?
ME(2) - Che ti frega!? Mica devi leggerlo tu questo dialogo!?..
ME(1)Grassetto - Sei davvero uno stronzo.
ME(2) - Zitto, comunista!..
ME(1) - Guarda che se lo sono pure io, allora lo sei anche tu. Siamo la stessa cosa, ricordi?
ME(2) - Lo sapevo io. Non solo comunista, anche frocio!..
ME(1) - Dai basta, lo scherzo è bello quando dura poco!
ME(2) - Ah si, pensa che la stessa frase la pronunciò la figlia di Sgarbi quando le fecero vedere chi era il padre!....

Fine prima parte. Arrivederci alla prossima discussione, che vi piaccia o no..