sabato 31 dicembre 2011

L'ultima parola è del Silenzio


Accoccolato ad ascoltare i rumori del suo cuscino; con gli occhi chiusi ed il cervello aperto, laboratorio che non hai mai ferie, non va in vacanza e non conosce soste.
Così Zagaria si teneva aggrappato alla vita, senza piangere o ridere, stringere i denti o sbraitare, protetto solo da una coperta di lana, verde al colore dell'erba più fresca.
Notte di inganni e di cieli stellati, notte di orgoglio e di falsi dei, notte di fate ignoranti e perverse. Notte repressa, notte sperata.
Ma Zagaria ha una buona trovata: nel suo rifugio, un pigiama pesante, digita i tasti di un sogno migliore. Con l'occhio alla luna, e un occhio al suo cuore, indaga silenzi lanciando i perché:


 - Perché nuvoloni? Perché grigio e blu? Perché non l'azzurro? Rispondimi, su.

 - Vuoi che non piova domani?! Figuriamoci, domani pioverà eccome.
Sulle scarpe e nelle scarpe, sopra i tetti e sotto i tetti, contro il muro e dentro i muri.
Pioverà che dio la manda, pioverà pure in veranda. Pioverà di pioggia a tempo, di folate di acqua e vento.

 - Dimmi tutto ciò che resta, e dove mettere la testa. Dammi un'altra previsione, dammi il cielo, dammi un nome!

 - Zagaria non t'affannare, non potrai coprire il mare. Ogni limite è un momento, come il verso, come il senso, come ciò che dice destra quando il sole è ormai a sinistra.
Come questo giorno strano dove sono tutti in tiro: cambia l'anno non l'emiro, cambia il mese non il re.

 - Si concedo, mio Silenzio, che una data sia un arredo, ma non chiedo cambiamenti, voglio solo che mi dica che sarà della mia vita: porta pioggia, porta vento, neve, grandine o maltempo.
Resto sveglio o dormo piano? Cambia lato, cambio letto, pancia sopra o faccia in giù?

 - Di domande è pieno il mondo, di risposte la tua testa.
Zagaria stanotte basta con quesiti, verbi e punti. Vedi  il fondo di ogni cosa, ma di notte si riposa.
Ruba spazio alla speranza, lascia il mondo e la coscienza; datti il tempo di tardare, la distanza per cadere; fai che tutto sia umidiccio.
E la pioggia, sul bagnato, non sarà mai più un impiccio.


Zagaria, nel dormiveglia, non oppose resistenza. Più coatto, che convinto, al Silenzio diede campo.
Corse forte incontro al buio, fino a scivolar svenuto. Dormirà il 31 e l'uno, oltre i botti ed ogni augurio.
Così nulla cambierà, se non cambierà davvero.
Perché il sonno non ha età, come l'uomo e il suo mistero.


giovedì 29 dicembre 2011

Lauta biografia di un osservatore foggiano - capitolo I



Capitolo I


"25 GIUGNO: IL 'GIOVEDI' NERO' DEL MIO CONDOMINIO"


Foggia, 25 giugno/1987

Venni al mondo, in tutta la mia simpatia, chiedendo subito che venisse richiusa la via della luce che voleva rapirmi, per restare a dormire soltanto altri cinque minuti.
Primo figlio maschio della famiglia, dopo due bambine, erano ormai pochi quelli che credevano in un possibile fiocco azzurro in casa mia, e i bookmakers, dalla portineria del nostro condominio fino al postino di zona, quotavano la nascita di un figlio maschio addirittura a 7.50.
Così nessuno si spinse a pronosticarmi nascituro, e tutti preferirono invece puntare sul cosiddetto “no born”, che significava una nuova femminuccia o in alternativa la possibilità che i miei genitori, consigliati dalla sensitiva di famiglia (assegnata proprio dall'Asl), riuscissero a convincermi a restare qualche mese in più nel grembo materno in attesa di una situazione politica ed economica più stabile nel paese; o forse solamente per non perdere i soldi che loro stessi avevano scommesso prima dell'ecografia che stabilì definitivamente il mio sesso: maschio, con tendenze future a pisciare seduto. Ma solo per noia.

[Parentesi col mondo reale n° 1]

Colui che svolse quella fatale ecografia, subì la più pesante delle punizioni: divenne il medico di Michael Jackson. Ora pare sia colpevole di avergli consigliato una cattiva crema per la pelle.



Le cose andarono quindi diversamente da come molti si aspettavano, e il 25 giugno fu un giorno di rabbia e sconforto per tutto il condominio di via Dante, soprattutto per chi aveva puntato forte su (contro) di me. Ci furono suicidi, qualcuno dovette abbandonare la casa che aveva ipotecato, signore e signori di mezz’età si trovarono costretti a vendere prestazioni sessuali per pagare i debiti contratti con l’agenzia di scommesse; queste e altre piccole tragedie caratterizzarono la mia venuta al mondo.
Molte famiglie del palazzo si presentarono quella notte sotto il reparto maternità, ma senza facce di giubilo, bottiglie di spumante, bouquet di fiori, volantini del movimento "Pro life" di Ferrara e tutto quanto il resto si usa di solito per celebrare un nuovo venuto. Semplicemente, mi odiavano. I danni economici che avevo causato a quegli individui li aveva persino distratti dal fatto che la Dc avesse preso ancora il 34% alle elezioni di qualche giorno prima. La mia nascita insomma li aveva inferociti, spazzando via in un lampo di quasi estate tutta l’amorevolezza e lo stupore che solitamente si provano nei confronti di un piccolo fagotto in cui non si distinguono ancora il sopra e il sotto.

[Parentesi col mondo reale n° 2]

Non c'entra un cazzo, ma Sergio Rizzo è uguale a Bettino Craxi.



Feci subito amicizia con un tale molto scuro di capelli che riposava alla mia destra, e di cui non posso riferirvi il nome perché quando ci conoscemmo avevamo tutti e due poco più di un’ora di vita, e lui il nome ancora non l’aveva.
Il tale si rivelò subito un tipo pratico. Innanzitutto mi consigliò caldamente di sfruttare una delle uscite riservate del palazzo ospedaliero per eludere l'agguerrita folla; quindi aggiunse che avrei fatto meglio a rifugiarmi per un po’ di tempo in un posto lontano, tipo il Messico o l’Argentina, aspettando o che la gente estinguesse i propri debiti, o che magari dimenticasse l’accaduto, oppure meglio ancora che morisse del tutto.
Insomma non ero nato sotto i migliori auspici. Sarà stato per l’aspetto estetico, o forse per una faccia poco convincente e un po’ paracula, ma sta di fatto che sin dagli esordi non erano pochi quelli a cui stavo sul cazzo. Mi consideravano un porta rogne, uno svogliato, e avevano poca fiducia sul fatto che potessi riuscire in qualcosa nella vita.
E il ricordo sale all’ostetrica, l'adorabile zitella che mi raccolse ancora sporco e lucido dalle mani del dottore. Mi fissò, alzò la mano destra, e lì, invece di darmi quei soliti schiaffi che si danno agli esseri appena nati, mi indicò di guardarla negli occhi bisbigliando: "Ehi stronzetto, non crederai mica che mi sporchi le mani per te!?"
Ed era solo l'inizio.

lunedì 26 dicembre 2011

Io, Mauro e Anna


Il mondo è una groviera, è pieno di buchi, e in ognuno si nasconde un dittatore, un cuore innamorato, un brutto insetto, una paura o un fiume vuoto.



Mauro si è sempre alzato presto la mattina, ma mai per un motivo preciso. Non tutti vivono per uno scopo, molti  fanno solo ciò che, in virtù di un'idea innata, ritengono sano, normale, bello a vedersi. Si comportano quasi come se non sapessero, o potessero, fare altrimenti. Così Mauro si alzava, si vestiva e scendeva giù con Anna.
Non c'era mattina che non li si vedesse camminare tutt'attorno al palazzo, fermarsi alla panchina, sostare per qualche minuto dall'edicolante, anche se in vent'anni non credo abbiano mai comprato un giornale, e poi rientrare a passo lento e trascinato verso il portone, salutando quei volti disegnati dalla fretta che uscivano per andare a lavoro. Mentre loro tornavano a casa, salutando l'ennesima uscita mattutina come un lavoro compiuto.
Per Mauro e Anna la routine, da accettazione passiva del tempo, era diventata bisogno. Quel tempo diviso in azioni da compiere valeva per loro come il battito del cuore. Frequenza fissa: TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...il ritmo programmato per eccellenza...TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...dio mio che noia...TU-TUM, TU-TUM, TU-TUM...eppure finché lo senti sei vivo. Semplicemente. E così loro sentivano le loro passeggiate come il pulsare che gli ricordava d'esser vivi.
Succede, a chi non è amato.

Non puoi chiedere di essere amato. Non puoi pregare perché qualcuno prenda a volerti bene. Al massimo puoi sperare di iniziare a piacere a te stesso. Se casa tua ti fa schifo, difficilmente ci inviterai qualcuno. Se pensi di non meritare qualcosa, allora non la meriti davvero.

Mauro sapeva come non farsi amare. Urlava; puzzava di rancore a dieci metri di distanza; stendeva il suo disappunto come un tappeto rosso che dall'uscio di casa arrivava fino al portone, come si fa quando c'è un matrimonio. Così che tutti vedessero, così che tutti capissero, anche chi in realtà se ne fotteva ben poco. Esattamente come si fa quando c'è un matrimonio.
Però non abbassava mai la testa, nonostante un accenno di gobba. Si prendeva brighe, responsabilità e colpe di altri che l'andavano ricacciando come il più classico dei rompicoglioni. Quello che fa perché non ha da fare, quello che vuole sentirsi al centro perché non sa dove andare. E magari era davvero così, ma lui almeno c'era. Non sono molte le persone nel mondo su cui puoi fare sicuro affidamento. Tutti vanno, cambiano, girano. Chi non si muove è un limitato, uno che resta fermo come una piazza.
Ma noi dove saremmo se le piazze si muovessero. E se non ci fossero strade, vicoli e incroci, dove abiterebbero i nostri ricordi?

Le paure sono come gli alcolici. Puoi viverci senza, ma è tutto più noioso. Piccolissime dosi sono inutili, ciò che conta è che il sapore resti in bocca per un tempo sufficiente a ricordarlo in futuro. Ma sempre senza esagerare. L'eccesso distorce completamente la realtà. E non mischiate mai paure diverse. Si rischiano mal di testa, nausea, vomito e sedute di psicanalisi

Mauro non si divideva mai da Anna, e Anna da Mauro. Lei bianca, piccola, sempre pronta a tutto, anche a sporcarsi per lui. D'altronde cos'è l'amore, se non sporcarsi insieme.
Lei era la sua unica fonte di sollievo, lui la sua guida. Quando Anna se ne andò, Mauro perse la ragione. O forse fu la ragione che perse Mauro. Non lo trovò più. Le uscite divennero sempre più sporadiche. I calci per allontanare i mozziconi di sigaretta sparsi davanti al portone sempre meno frequenti. Che senso aveva rendere decente quella soglia se poi non doveva esserci più Anna a varcarla?
I suoi capelli, per omaggiarla, si colorarono dello stesso bianco di Anna. La gobba si appesantì, Mauro pareva voler avvicinarsi sempre più a terra. La sua voce perse di profondità, i monosillabi si facevano secchi, duri come latrati di rabbia e vecchiaia. Adesso la sentiva ancora più vicina, lei che nel suo ringhio metteva la forza di dieci cani da guardia.
Lei era la cagnolina di Mauro, il vecchio che ha sentito addosso l'odio, il terrore, il rispetto, la vergogna, il fastidio, la pietà.
Uomo che ha camminato tanto, e che adesso forse vuole solo riposare.

sabato 3 dicembre 2011

Passi falsi


Non ricordo come si chiamasse quella villa che fronteggiava la finestra del nostro appartamento. Era bianca, presentata alla strada da una cancellata arancione fatta di aste con in cima sfere sempre più grandi man mano che dai lati si arrivava al varco che apriva il cancello. Le due palazzine all'interno erano protette da alberi alti e robusti, che avvolgevano le mura come un denso fumo verde, facendo intravedere solo due delle tante finestre che rubavano aria per rivenderla alle anime nascoste di quella casa.
Non ricordo se la villa avesse un nome, ma ci ripetevamo sempre che un giorno avremmo trovato il modo di entrarvi. Per salire di corsa le scale, spalancare le porte delle stanze serrate (sicuri che anche quella casa, come tutte, avesse delle camere ad accesso limitato) e celebrarci come una sorta di esercito di liberazione, recuperando un antiquariato forse mai esistito, ma che per noi abitava idealmente quegli oscuri spazi interni a prescindere da tutto. Come un'istituzione. Come un ricordo mai nato.
E poi saremmo entrati per guardare il mondo da quelle finestre così vicine ai nostri occhi eppure così distanti dal nostro vivere, fatto di sabbia, di vestiti umidi, di salsedine, di sudore, di accecanti bagliori di vitalità, e di attimi di buio da lasciare in pasto al desiderio. Saremmo entrati e avremmo sporcato tutto con la nostra vita, avremmo tatuato la nostra presenza sul pavimento con i nostri passi rapidi ed eccitati, avremmo agganciato i nostri sospiri al soffitto come lampadari pieni di cristalli mai fermi. E mai banali.


Non ricordo il nome di quella villa. Né la strada, o in che paese si trovasse. E sono una persona di ottima memoria, giacché sono ben descritti nella mia testa il taglio dei tuoi occhi, il caldo tepore della tua mano, il sapore salato della tua lingua, i tuoi nei, ogni metro percorso insieme, quando mi hai chiamato per la prima volta "amore", la misura dei tuoi piedi, il numero delle tue dita, la quantità minima di sguardi al minuto (quattro, ossia uno ogni 15 secondi), la lunghezza delle tue braccia, il confine naturale di ogni carezza, le lacrime aiutate e quelle boicottate; il tempo esatto che mi ci volle per capire che nulla sarebbe stato come prima.
Eppure non ricordo nulla della geografia di quel posto. Forse perché arrivammo lì perdendoci, e smarriti ci rimanemmo. Spersi in un punto, e ovunque. Come quando ci si ferma in mare, e si volge la testa verso la riva a cercare riferimenti puntualmente spostati. Un metro, due, dieci, mille chilometri. Da un posto all'altro del mondo senza saperlo. Senza volerlo. Forse.


Non ricordo, giuro.
Non ricordo se in quella villa ci entrammo mai, o se passammo tutto il tempo a fissarla dalla nostra finestra. Non ricordo se la contemplammo più di quanto non desiderassimo farla nostra. E non ricordo se protestai quando la spogliarono prima delle luci, e poi degli alberi fitti, della cancellata, dei mattoncini di marmo che segnavano la via fino all'uscio e delle panchine che accompagnavano la porta ai due lati. Pian piano sparì tutto il resto, e non ricordo se ce ne accorgemmo mai, né per quanto tempo continuammo a fissare il nulla.
Non ricordo se quella villa è esistita davvero, o se l'ho letta, sognata o disegnata. Non ricordo se ho fatto in tempo a inventarla prima che sparisse definitivamente anche dalla mia testa.
E non ricordo neanche più se manca un pezzo a questa storia. Forse si. Adesso so solo che mi sono perso ancora; ed è questa la mia unica vera storia.


domenica 27 novembre 2011

La posta del cuore - novembre 2011


Mariti gelosi? Amanti infelici di mogli poco tolleranti? Amici gay che non riescono a confessarci il loro amore? Questo e altro a "Porta a Porta". Noi qui invece facciamo solo "La posta del cuore". Una rubrica per anime educate ai bei sentimenti, aperte agli occhi di sguardi indiscreti e giudicanti, ma a cui fanno schifo le canzoni di Biagio Antonacci. (Il quale, commosso da aver avuto tale importanza in un mio scritto, ricambia.)
Avviso ai lettori innamorati: se io e questa rubrica siamo mancati il mese scorso è stato soltanto per non interferire con la tragedia politica che ha sconvolto l'Europa: alla signora Merkel non è venuto il ciclo, e Silvio, che la pensava in menopausa, è stato costretto a rivedere i suoi piani di governo inventandosi un nuovo dicastero: il Ministero per le Politiche Irresponsabili, assegnato ad Amedeo Goria.
Ma bando alle ciance, andiamo con le vostre storie.

Mi chiede Luca da Rimini, con un post-it attaccato su un pacco bomba troppo rudimentale per farmi paura:

+ VladimiroPutin perché non sveli la tua vera identità? Perché ti nascondi dietro un nome inventato per giocare a fare successo spiattellando i nostri guai sentimentali? E soprattutto: è normale che la mia ragazza mi abbia lasciato perché non andavo a messa la domenica? Io ho cercato mille volte di spiegarle che in una coppia possono convivere opinioni diverse, ma lei mi ha sempre risposto che due opinioni diverse possono convivere solo se una delle due è sbagliata. Ecco io sto male. Risolvimi la questione o questo pacco esploderà come una notte di san Silvestro! Con immutato disprezzo, Luca.

 - Luca carissimo, comprendo il tuo dolore ed è solo per questo che mi sono limitato a denunciarti per stalking, visto che, prima del fallimentare attentato dinamitardo, hai chiamato per un'intera giornata mia sorella, ignorando peraltro che lei stessa mi sta cercando da quando le ho rubato il figlio per una partita di calcetto e non gliel'ho mai restituito.
Ma veniamo al tuo problema. Non ti sarebbe costato nulla andare un'oretta a settimana a messa, dove tra l'altro si possono imparare benissimo gli accordi basilari per suonare la chitarra, oltreché le migliori tecniche di marketing per mietere soldini durante l'offertorio. Invece per fare il coglione hai perso la tua ragazza, che tra l'altro ha anche ragione: per fare convivere due opinioni diverse o una delle due non deve avere alcuna pretesa di autonomia, oppure devi essere un elettore convinto del Pd.

.        .        .

Secondo documento di oggi, la telefonata di Fabio, 26anni, che dice di essere a Santo Domingo, ma chiama col prefisso di Alba Adriatica (e adesso andate tutti a controllare dov'è Alba Adriatica!..):

+ Fratello Valerio, ho una lieve urgenza, figlia della mia giovane età. Scusa se parlo a bassa voce, ma chiamo dal letto di casa mia, dove sono con la mia ragazza. La amo e abbiano appena finito di fare l'amore. E' stato bello e sono molto felice. Lei ora dorme. Ed io ho solo un piccolo problema: non ricordo assolutamente il suo nome! Aiutami, prima o poi lo verrà a scoprire. Un abbraccio.

 - Fabio, tranquillizzati. Il tuo non è un problema di scarsa attenzione verso la tua lei, ma un più serio e grave problema di memoria verso i nomi, visto che mi hai chiamato Valerio mentre tutti sanno che sono Vladimiro. E che cazzo!
Non fare drammi comunque, la tua ragazza si chiama Isabella. Fidati di me..
.        .        .

Lettori e lettrici care, per oggi abbiamo finito. La massima con cui vi saluto è una perla di un autore di cui non posso proprio fare a meno:


"..e mentre un comico faceva ridere,
io ti ho sentito che piangevi e allora sono tornato,
ma tanto già lo sapevi che tornavo da te,
senza niente da dire, senza tante parole,
ma con in mano un raggio di sole per te che sei lunatica.

Niente teorie con te, soltanto pratica.
Praticamente amore.."
("Un raggio di sole", Lorenzo Jovanotti)

giovedì 27 ottobre 2011

Gocce di poesia - Atto VI

LA BALLATA DEGLI OCCHI STANCHI

Fiori liberati
da mani troppo sporche,
facce e letti sfatti,
aroma di caffè.

Piangono sorrisi
dopo estati morte,
sbattono le porte,
l'inverno fa da sé.

Ombre cancellate
tra cumuli di forse,
sogni in cerca di notte,
dove buio non c'è.

E luccicano strade
silenti, estranee e vuote.
C'è un gatto, non si muove;
lo fisso, e fisso me.


domenica 16 ottobre 2011

Viaggio con breve sosta al tropico del caos


Oggi ero a Roma, a via Cavour, mentre una fiumana di gente si distendeva da un capo all'altro di quella immensa via per vivere una giornata all'insegna dello sfogo. Vedevo un unico orizzonte di teste, e mi autoconvincevo che ve ne fossero abbastanza affinché la legge dei grandi numeri potesse darmi la certezza che quelli con un cervello funzionante superassero di gran lunga i dementi lobotomizzati.
La quantità non  è mai una qualità, è chiaro. La massa spesso ha accompagnato e sostenuto l'ascesa di stupidità e distruzione (i regimi dittatoriali, le guerre, il colonialismo, le sante inquisizioni, le pubbliche segregazioni, la caccia alle streghe, gli hippie, il Festival di Sanremo, la moda anni '80, Canale 5, Antonella Clerici..), ma se tanta gente in un assolato e freddo sabato d'ottobre, invece di pranzare e godersi "Top of the pops" (lo fanno ancora, si?), scende in strada per sbraitare il proprio legittimo disappunto contro il sistema, allora mi dico: forse una sottile linea di tensione positiva esiste ancora nella società. A prescindere dai motivi della protesta, è sempre piacevole sapere che a più di qualcuno non sta bene sguazzare nella merda e sentirsi dire che dobbiamo pure ringraziare, perché c'è la crisi, e la merda forse in futuro non basterà neanche per tutti.

Ero a Roma, in via Cavour, mentre pensavo tutto questo (non è vero, in realtà lo sto pensando solo adesso, ma voi non lo saprete mai..), e ad un tratto alzo la testa e vedo delle figure antropomorfe che salgono sulla tettoia dell'ingresso di un hotel e tentano di dar fuoco alla bandiera dell'Unione Europea. Volando come farfalle e pungendo come api, proprio come Cassius Clay, che però si distingueva solo per un ulteriore piccolo tratto: aveva uno scopo. Aveva un obiettivo; un traguardo; l'idea di andare un po' oltre se stesso.
Io in quelle quatto scimmie esultanti per l'insolente gesto (e chi mi conosce sa la scarsa considerazione che nutro verso l'Unione Europea, e le litigate col mio caro amico d'infanzia Helmut Kohl per questo motivo..) ho visto tutto, tranne che uno scopo. Ho visto energia, sfacciataggine, rabbia, desiderio di eversione, voglia di distruggere. Ho visto filamenti di sole che attraversavano il fumo nero che saliva dalla bandiera bruciata, quel solito miscuglio denso di luci ed ombre, chiarori e oscurità che dipingono il caos meglio di qualsiasi altra immagine. Ho visto la fame di notorietà (ma sempre con la sciarpa sul volto e il cappuccio calato sulle sopracciglia, perché anche la rivolta ha le sue manie di protagonismo).
Ho visto tutto nelle loro azioni, ripeto, tutto tranne che uno scopo.

Non sto qui a regolare la tratta dei comportamenti da tenere in una protesta, non sto qui a dire per cosa è giusto urlare, spingere e dannarsi l'anima (no, il termine "indignarsi" da me non lo leggerete mai!), non sto qui a scrivere che fa più effetto un'auto bruciata per strada piuttosto che uno sciopero della fame davanti Montecitorio, e non sto qui perché credo che adesso andrò a dormire. Per mettere fine a questa giornata. E forse anche per dimenticare il triste senso di vuoto che mi ha accompagnato oggi pomeriggio tra le strade del centro di Roma.
Ho gravitato tra nuvole artificiali, pezzi di mondo, puzza di adrenalina mista a paura, leggi divelte e una planimetria urbana da imparare a memoria. Ho associato le vie a livelli di tensione. Ho misurato negli occhi di una signora lo sconforto di chi ha visto per l'ennesima volta le solite scene di delirio, e ancora non riesce a comprenderne le ragioni.
Ho cercato ragioni, scuse e giustificazioni. Ho maltratto il mio inutile fisico per capire cosa volesse dire esserci. Ho pensato che in fondo nella vita non si possa prescindere dall'attaccare e dal difendersi. Come Muhammad Ali: "vola come una farfalla, pungi come un'ape".
La differenza però non la fa la forza, ma lo scopo. Quello di Alì era vincere. Quello dei teppisti romani di oggi proprio non l'ho capito.

martedì 13 settembre 2011

La posta del cuore - settembre 2011


In tempi in cui i contenuti scarseggiano, a parte le solite minchiate su politica e calcio e tv (di cui parlerò sicuramente nelle prossime settimane, non temete..) mi sembra quasi normale dare spazio ad uno dei monumenti all'occupazione inconsulta di carta da giornale. Parlo della famosissima "posta del cuore", quella sezione che tanto ha dato a riviste scandalistiche come "Novella 2000" e "Cioè", e tanto ha raccolto da riviste più scandalose come "Panorama" e "La Stampa", con Carlo Rossella e Massimo Gramellini a far da carta da parati a una rubrica che, se l'avessero fatta sul giornaletto della mia scuola ai tempi del liceo, sarebbe finita con un'occupazione dell'edificio più richiesta di pena di morte per tutto lo staff editoriale della testata scolastica.
Insomma, per non tirarla troppo alla lunga, apro anch'io la mia posta del cuore, con sms, lettere e quant'altro perverrà direttamente alla mia attenzione, anche senza la volontà e l'autorizzazione dei soggetti interessati. Indi per cui, se volete fare uno scherzo o sputtanare qualche vostro parente o amico o ex, questo è il posto giusto. Io non verifico, non controllo, non chiedo di più. Seguo la linea editoriale di Feltri.
(Naturalmente per la posta uso uno pseudonimo, sapete com'è per non rovinare la mia reputazione).

Iniziamo subito da un messaggino che mi è arrivato giustappunto ieri. Mi scrive Ilaria da Vigevano:

"Ciao posta del cuore (skusa ma non so come ti kiami tu ke fai la posta del cuore), sn Ilaria e ho 8 anni suonati. C'è un ragazzo di IIIa media ke mi piace tanto, ma lui ha 13 anni (non so quanti + di me, non sn brava coi numeri) e non mi si fila. Kosì io gli ho mandato un sms e gli ho promesso ke se usciva con me io gli facevo vedere le tette. Lui ha accettato. Ora xò c'è un problema: io non ce le ho ancora le tette! Come la risolvo sta kosa? Dici ke se ne accorge? Ho paura di deluderlo, poi non mi amerà + sicuramente. Ciao. Tvtb."

 - Allora Ilaria, innanzitutto vorrei dirti una cosa, fondamentale per continuare questo nostro rapporto epistolare: usa un'altra volta la lettera K con lo stesso criterio con cui si mette il formaggio sulla pasta al pomodoro, e giuro che chiamo tuo padre e gli dico di trasferirti a una scuola serale per extracomunitari, che almeno quelli ce l'hanno una giustificazione per parlare male l'italiano.
Ora veniamo a noi. La tattica che hai attuato con questo tizio ti fa molto onore, davvero, mi appari sagace  e determinata. Però il problema delle tette resta, tu gliele hai promesse e ora qualcosa a sto ragazzo gli spetta, visto che t'ha creduto sulla fiducia. E la fiducia è il primo passo per l'amore. Quindi il mio consiglio è: visto che tu tette non ne hai, se hai una sorella o una cugina o un'amica più grande messa meglio di te, portati pure lei all'appuntamento. Vedrai che il ragazzo sarà soddisfatto, e tu guadagnerai punti agli occhi del suo cuore. Poi fammi sapere come va' (con l'italiano intendo).
Un abbraccio,
VladimiroPutin.
.   .   .

Riporto adesso un bigliettino lasciatomi sotto l'uscio di casa dalla mia portinaia, dice che è di qualcuno del condominio che l'ha lasciato nel suo stanzino, senza firmarlo:

"Per la posta del cuore di VladimiroPutin. Sono una diciassettenne follemente innamorata di un ragazzo di 20 anni che è uscito con me solo una volta, e l'abbiamo fatto, e lui poi non si è fatto più sentire. Io ci sto male da morire, ma lui non mi risponde, o quando sente la mia voce riattacca. Ed io vorrei solo dirgli che lo amo. Saluti dal quarto piano...oh cazzo non lo dovevo scrivere!.. Beh vedi di non sputtanarmi ti prego. ciao."

 - Cara Alessia Settembrini, come vedi non ti ho sputtanato. O meglio non avrei voluto, ma il vostro cane continua a pisciare dal balcone ed io mi sono rotto il cazzo di lavare i panni tre volte al giorno. Se non avete tempo di portarlo giù, ditemelo che ce lo porto io sui viali a pisciare. E poi probabilmente lo libero..
Comunque la tua storia sentimentale fortunatamente è più facilmente risolvibile. Questo ragazzo hai detto che ha 20 anni e tu 17? Ok, denuncialo. Una volta che sarà lui a venire da te per chiederti di ritrattare e dire che in realtà nel rapporto eri consenziente, allora forse sarà più facile farti dichiarare il suo amore. Poi digli che è stata una scelta difficile, l'hai fatta per il vostro amore.
Con immutata stima,
il gentile VladimiroPutin.
.   .   .

Con questa per oggi è tutto. Arrivederci alla prossima posta del cuore dal vostro VladimiroPutin. E non dimenticate mai la massima che mi ha aiutato ad essere quello che sono oggi: "le grandi occasioni arrivano una volta sola, se non le afferri al volo passeranno altri alla storia" (Fabri Fibra).

venerdì 2 settembre 2011

Reportaggi - "La paura"


Ci sono sentimenti, situazioni, strutture e sovrastrutture, paradigmi, concetti base di cui non possiamo fare a meno. Noi, intesi come popolazione, dobbiamo provare e attraversare forzatamente tutte quelle fasi emozionali e psicologiche che ci formano come esseri umani completi e sempre un po' più maturi. Per questo si soffre mentre si ama, si mangia quando ci si ammala, si ride dopo che si piange, si cammina quando non si dorme, si sbaglia se non si è nella ragione, si ignora prima di conoscere. E per questo si teme per poi prendere coraggio.
I bambini nascono con la paura addosso, e sono anche i primi a combatterla affrontando sfrontati ciò che non sanno, che è tanto. Tutti poi, adolescenti e ragazzi e uomini e donne via via più adulti, conviviamo col terrore. Per poi sbarazzarcene, o quantomeno per affrontarlo; altrimenti non lo sapremo mai di che pasta è fatto il coraggio. Il brivido lungo la schiena, la goccia di sudore tremolante sulla pelle d'oca che pare un campo minato, i sensi che si allertano per registrare qualsiasi modificazione della realtà esistente, in fin dei conti per confermare che hanno perso il controllo della situazione, e il susseguente salto nel buio.

Tutti abbiamo paura. Tutti, tranne i foggiani.
A Foggia la paura non esiste più. Esiste la certezza della pena, pure se non hai fatto nulla. Anzi, soprattutto se non hai fatto nulla. Un giustizialismo ancora più rozzo e triviale del giustizialismo in sé, perché rozza e triviale è la legge che lo governa. Se ci fosse un Tribunale della Violenza Foggiana, al posto del famoso motto "la legge è uguale per tutti", troveremmo una tavola con su scritto l'altrettanto noto postulato moderno: mo t shcatt 'n gurp ("adesso ti faccio soccombere definitivamente nelle tue stesse budella").
Ma non perdiamo di vista il nostro elemento fondamentale, nonché il grande assente: la paura. Il passaggio, da essere timoroso a essere con una colonna vertebrale vagamente eretta, a Foggia non esiste più. Non puoi avere coraggio se non hai paura, e non hai paura perché sai già come andrà a finire. E se non va a finire come avevi immaginato, è soltanto per pura coincidenza, o perché chi ti doveva crepare in corpo (stesso significato di "t shcatt 'n gurp") aveva altro da fare, o comunque per motivi alieni dalla tua responsabilità e volontà. Perché nella giungla foggiana il margine d'azione è limitato, e non puoi contrastare in alcun modo l'escalation del continuo subire; a meno che tu non abbia armi (coltellini, pistole, mazze, cric e altro che sfreggi), branchi di bestie numerosi con cui restituire onori e complimenti al tuo avversario, o amicizie "importanti" presso cui andare a ricorrere (termine che equivale un po' a "pregare", lì dove pregare equivale un po' a "chiedere una grazia" a colui che siede alla destra del Padrino). Facendo così, però, si entrerebbe nel modus agendi degli esseri ferini e nel loro stato di diritto. Diritto, o rovescio; dipende da dove ci si trova rispetto al loro polso.

Ma c'è chi belva non vuole diventare, e vorrebbe solo aver paura. Una legittima paura della violenza, di quel lato maledettamente oscuro della mente umana che ferisce lì dove siamo più vulnerabili: nella nostra dignità, negli affetti, nelle nostre cose. E qui il male fisico c'entra ben poco. Voglio avere il diritto di aver paura della più folle o tristemente cinica espressione della cattiveria umana. E prendere le mie misure per affrontarla, per quello che posso, senza pretendere nulla da me stesso se non la voglia di sforzarmi per capirci magari qualcosa in più di questo male da cui provo a proteggermi.
Invece non c'è niente da capire. Nessun timore, ti devi rassegnare: prima o poi subirai anche tu la cieca legge della nuova normalità foggiana. Non temere di aver fatto qualcosa di sbagliato, non serve. Sarai punito a prescindere, per precauzione, cosi capisci cos'è che governa questa piccola terra di nessuno.
Una volta i vecchi foggiani dicevano "si trasut' ind' a paur'!", per dire di quando ti accorgevi che dovevi iniziare a stare attento a qualcosa o qualcuno. Ma adesso no, lì non ci entra più nessuno.
Niente terrori, mi spiace. E non perché devi stare tranquillo, anzi; è solo che a Foggia ormai non puoi più permetterti neanche la paura.


martedì 16 agosto 2011

Gocce di poesia foggiane - Atto VII

APPICCIAFUCH'

Nu ferragust' allucinant';
sott 'a fnestr 'u munn cant.
E si t'affacc' e guard bun',
vid che cant'n a' diun'.

Nu ferragust' d' burdell';
p'u cors luc' e bancarell'.
Pur' si a str'd è buch' buch',
tu av'z l'ucchj' e aspitt' i fuch'.

Nu ferragust' tropp bell;
mammà ha cacc't tre tiell'.
Duj' past au furn, na lasagn':
e mo 'u second' chi s'u magn'?!

Nu ferragust' da paur;
'a fest d'i fatigatur.
E chi n'n vòl fa u mariul',
festegg' e po' s'u pigghj' n'gul..


sabato 13 agosto 2011

L'amante delle parole


Seduto alla panchina, vestito di tutto punto, con solo una virgola di disapprovazione per una camicia troppo gialla, e delle virgolette di sorpresa per un papillon color blu bollino chiquita, stava lì come un segno interrogativo, curvato per meglio adagiarsi alla forma dello schienale. E guardava la gente passare, e su di essa aveva che dire. Sempre, incondizionatamente, una parola.
Un bambino di sette anni, o forse nove, facciamo otto, gli passò avanti a passo lento con in mano un ghiacciolo sciolto. Leccato solo a metà, e puntato verso il basso, il gelato abbandonato aveva la stessa faccia dimessa del suo proprietario. L'uomo alla panchina lo vide ed esclamò: "CANCELLO".
Il bambino si girò, chiese all'uomo di ripetere, e questi ripeté annuendo con sorriso sicuro. Il figlioletto di donna assente rigirò allora la testa, guardò il gelato ormai praticamente latitante, e scoppiò a piangere. Il bambino aveva il pantalone strappato nella cucitura del cavallo, ma l'uomo non poteva saperlo; come non poteva sapere che il pargolo era appena stato scherzato da dei compagni di gioco, compagni per modo di dire. I piccoli bastardi avevano preso a pizzicotti la sua notevole stazza fisica, che non gli aveva permesso di scavalcare un cancello, al rientro dal quale l'ometto s'era pure bucato il pantalone.
Il tizio in panchina smise di ridere. Il bambino stette lì ad aspettare altre parole, come dal maestro di seconda elementare si aspetta la soluzione del problema di quella signora che compra 5 confezioni di uova: considerando che ogni confezione contiene 6 uova, quante uova ha preso la signora? Come dite? Trenta? No, sbagliato: 32! Perché la signora è cleptomane e due uova le ha messe in tasca senza pagarle..
Il fanciullo, deluso e adesso anche confuso, sparì così dall'attenzione dell'uomo seduto, che ora stava con la testa rivolta verso l'alto, quasi ad aspettare che un raggio di sole gli cadesse dritto sul naso, o che una cacca d'uccello lo battezzasse come mai aveva potuto fare la chiesa. Questo finché non arrivò ad incrociare trasversalmente la linea della sua esistenza una bambina morettina, piccola ma neanche tanto. Quasi tre anni, capelli ricci e un fiocco rosso porpora in testa, giocava a muovere quello che forse era stato un pezzo di ramo come fosse la bacchetta magica d'un prestigiatore. O piuttosto provava a sentirsi una direttrice d'orchestra. No, troppo complesso. Vada per l'ipotesi della prestigiatrice..
La creatura mosse la bacchetta troppo velocemente, e questa le scivolò dalle mani andando a infilarsi nello spazio vuoto di un tombino. Addio magia, addio sogno, addio sorriso. La faccetta della minuta si cosparse di inestinguibile tristezza, ma in un modo adulto, che adulto ormai più non è: sobrietà, silenzio, occhi concentrati sul dolore. Poi però parlò l'uomo, quello in panchina, che disse solo: "CAPELLI".
La bimba alzò lo sguardo verso il tipo parlante, le piccole guance s'illuminarono di bianco sorpresa e gli occhi si scetarono come solleticati da un'improvvisa folata di vento. "Capelli" aveva detto l'uomo, e proprio nei capelli la pargola usava mettere quel bastoncino di legno che s'era ormai perso sotto la città. Anzi, a dirla tutta, quella del legnetto tra i capelli era una pratica di suo padre, che a quell'acconciatura per la sua piccola ci teneva parecchio. Evidentemente più di quanto tenesse alla bambina stessa, visto che l'aveva abbandonata un anno prima di quel momento. E la bimba il papà lo ricordava bene, e avrebbe voluto tanto rivederlo, e continuò a fissare l'uomo. Che però non capì, perché non sapeva, e se capì allora se ne infischiò. Così tornò a mirare le nubi.
Ma sentì, a pochi centimetri da lui, i passi e poi la voce di una donna che si fermò nei pressi dell'ormai celebre panchina. Lui non la vide subito, e lei, con i capelli neri legati dietro il collo e un vestito rosso che ricordava vagamente un collage di petali di rosa sulla pelle, destinò la sua attenzione al bambino pieno d'umiliazione e alla piccola donnina aspirante maghetta. I due, dopo le due parole (due di numero) dette dall'uomo, s'erano fermati lì a osservarlo senza dargli alcun fastidio, come se davanti a loro vi fosse un serpente in una teca.
La donna non perse tempo e rimproverò subito quelli che, ben presto si capì, erano i suoi figli:


 - E voi cosa ci fate qui? Giorgia non ti avevo detto di restare vicino a me?! E tu, Antonio, quante volte ti ho detto che non devi mai fare questa strada?! Ok, non volete ascoltarmi? Adesso torniamo a casa e facciamo i conti..
 - Ma mamma... Ho preso un gelato, mi sono distratto e sono passato... E poi lui ha detto una parola che..
 - Si ha detto una parola, lo so. Lo sappiamo tutti. Lui dice sempre una parola..
 - Sapeva che ho rotto il pantalone al cancello del campetto!
 - Cos'hai rotto?
 - Il pantalone, qui in mezzo (e mostra la scucitura). Volevo scavalcare, non ce l'ho fatta.. Scusa (piange).
 - Dai Antò lascia stare, fai l'ometto. Non è successo niente: il pantalone lo aggiustiamo a casa, i cancelli imparerai a scavalcarli. Non serve piangere.
 - Papà sapeva scavalcare?
 - Antò torniamo a casa per piacere?! Non è il momento di parlare di queste cose.


Da più in basso si alzò la voce di Giorgia:


 - Mamma senti, lui parla come papà!


La piccola intanto aveva indicato l'uomo della panchina, che restò freddo lì al suo posto e senza neanche muoversi sillabò a voce mite: "PERDONO".
Antonio e Giorgia non capirono; o almeno così pareva dalle loro facce, che forse avevano più sete di sapere che di capire. Silvia, la loro mamma, si accalorò e si colorò di un rosso simile al suo vestito, mischiato però su un viso che raccontava rabbia e rancore: "Una parola. Sempre e solo una parola. Ti basta questo... Mi fai pena."
Silvia scandì bene le ultime lettere, quindi prese per mano i due grandi amori della sua vita, e fece per andarsene. E mentre si avviava, con un tono giusto per farsi sentire man mano che s'allontanava dalla panchina, annunciò: "Allora gioie, adesso andiamo a casa così vi racconto la storia di un uomo triste. Un uomo che ha abbandonato la sua famiglia per cercare la libertà di sposarsi con le parole, una per ogni persona incontrata per strada. E oggi ha trovato una parola anche per voi. E' la parola con cui ha capito d'aver perso tutto." 



martedì 28 giugno 2011

Gocce di poesia - Atto V

ME RIVERSO

Sono quello che resta sul fondo della bottiglia.
Sono l'anima, il pensiero, un'idea che non mi somiglia.
Sono il fine che giustifica i mezzi e le mie parole.
Sono il cane seduto a fare la guardia, e sono il padrone.

Sono l'unico peccato felice d'esser mortale.
Sono il sintomo di un virus di cui ti vorrai infettare.
Sono il cinico che scambia per vizi le sue fortune.
Sono il comico, costretto a cantare le sue paure.

E sono gli occhi,
di un timido scemo;
e del buffone che ride di meno;
e poi di un vile,
che è condannato
a descrivere ciò che ha pensato.



venerdì 17 giugno 2011

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo IV

 - SOLO, SEMPLICEMENTE, ECCESSIVO -


Ed ora cosa le dico?”.
Lo pensava, Apollonio, e continuava a ripeterlo a se stesso mentre le mani strofinavano a più riprese una barba vecchia di settimane, e la testa oscillava verso sinistra, appoggiandosi al vetro di quell’autobus su cui era salito solo per dimenticare la pioggia battente che improvvisa aveva preso a cadere sulla città. Una roba che Apo detestava (la pioggia, non la città, in questo caso) e giudicava male per una vecchia frase di suo nonno: “La pioggia è un cattivo esempio. Se non ti tocca, non ci pensi; puoi anche fissarla, ma è come se non esistesse più.
Apo non ricorda molte cose di suo nonno materno (e neanche una del padre di suo padre, che morì ancor prima che lui nascesse), ma ad ognuno di quei pochi frammenti ha dato un valore preciso, importante, fondamentale. Come il ricordo di quell’unica volta che vide suo nonno andare allo stadio. Una domenica piovosa, sempre la solita maledetta pioggia, e Apollonio che arriva allo stadio insieme al nonno e a un altro cugino, col nonno che decide però di andare a seguire la partita in un altro settore, da solo.
Apo questa scena non l’hai mai dimenticata: il nonno, un tipo che ha sempre amato la compagnia, quel giorno aveva preferito vivere in assoluta solitudine quell’ora e mezza di calci e urla, ossia quello che è il rito comunitario per eccellenza secondo la maggior parte degli abitanti maschi di questa nostra Italia. Lui, da solo, in mezzo alla folla: un’elegante manifestazione di libertà, e un’immagine indelebile per Apollonio, che ancora oggi sceglie di vivere in disparte tutte quelle esperienze in cui è la moltitudine a farla da padrona.

Ma il passato è passato, e Apo, seduto sempre in quell’autobus, continuava a martellare se stesso chiedendosi: “E adesso cosa le dico?”.
Intanto la pioggia aveva quasi smesso di cadere, forse offesa da quei giudizi che Apo aveva ripreso da suo nonno e che aveva fatto subito suoi, indossandoli così com’erano, proprio come farebbe una giovane nipote con un vestito antico e bello ritrovato nell’armadio della nonna. Ma non ci fu neanche il tempo per il vento di spazzar via le nuvole grigie d’acqua, che improvvisamente si palesò, invadente, un ritardatario sole d’aprile. Inopportuno come sanno essere solo certe beffe.
Ma anche col sole Apollonio era sempre lì, testa poggiata al vetro del pubblico trasporto, intento a stracciare le vesti delle sue sinapsi, sconfortato com’era per non aver trovato ancora una risposta al quesito che ormai sapete bene anche voi. Questo formicolio di negatività e insoddisfazione era però destinato a dissolversi ben presto dalla sua testa, e bastò poco, o forse tanto, perché ciò accadesse.
Bastò un arcobaleno, uno dei più classici. La striscia di colori sorprese infatti Apo, e gli impose una riflessione; una riflessione anche banale, ma doverosa. Come quando sbatte una finestra: ritieni sia un evento privo di importanza, eppure ti ha sorpreso, non te l’aspettavi; e tanto basta per dedicarvi quanto meno un pensiero veloce, anche per far sì che non si ripeta più. Ecco l’arcobaleno è più o meno questo, solo molto più bello.

La pioggia, suo nonno, lo stadio, il sole, l’arcobaleno, la finestra che sbatte. E poi il quesito, la solita insoluta domanda. Chiacchiere buone per occupare minuti bianchi come fogli vuoti, i minuti che Apollonio passa sull’autobus. Minuti che poi finiscono, perché l’autobus, prima o poi, alla sua o alla tua destinazione ci arriva. Ed Apo quasi non se n’era accorto di essere arrivato dove doveva arrivare. Scese alla fermata, fece cinquanta passi, guardò l’ingresso di un numero civico e i negozi che vi erano posti accanto, poi scorse velocemente i cognomi sul citofono, quindi vide il portone aperto e si decise ad entrare.
Due rampe di scale a piedi, perché l’ascensore lo prendono i vecchi, e si ritrovò davanti a una porta a pensare per l’ultima e decisiva volta: “E che cazzo le dico?”. Per inerzia, ma forse senza volerlo veramente, suonò il campanello. Poi aspettò, come si aspetta una sentenza della corte. Ed ecco che finalmente la porta si schiuse, e ad accompagnare la porta c’era lei: Ines.
Il buio avvolgeva la testa di Apollonio come il pallino sfocato in una foto copre il volto di un bambino che meriterebbe molta più privacy. Apo fino a quel momento non aveva messo assieme alcuna frase coerente e coesa, e niente faceva pensare che nel breve sarebbe riuscito nell’impresa. Ma poi, al tempo fulmineo della smentita di un politico, aprì la bocca e le diede fiato; e quasi senza accorgersene, come fosse ventriloquo di se stesso, disse:

-         Ines, prima ho visto un arcobaleno e ho pensato a te. Perché mi sei capitata tra le braccia proprio come cade tra le braccia della terra un arcobaleno: bello e improvviso.

Ines sbiancò. Forse l’emozione, forse l’imbarazzo, forse la paura di non saper pensare anche lei una risposta adeguata al contesto. Poi però a quel pallore in volto fu attribuita la giusta causa: la paura. E non appena tirò fuori voce e parole, tutto di lei fu più chiaro:

-         Ma chi sei? Cosa dici? Cosa cerchi da me?... Perché sei qui??

Apo avvertì un colpo di pistola tra mille pugnalate quasi attese, e fra i due iniziò un breve scambio che lo vide capitolare dopo poche riprese:

-         Ines, ma sono io: Apollonio. Abbiamo parlato fino ad un’ora fa su quella chat!
-         Tu sei pazzo! Io non ti conosco, devi andartene!..
-         Ma sono io, cazzo! So tutto di te, parliamo ogni giorno, e tu sai tutto di me. S’era detto che presto ci saremmo visti, ma io non ce l’ho fatta, ed eccomi qua ora. Cos’hai? Che ti è successo?
-         Tu non ci sei, non sei qui, e se sei qui non sei nessuno. Io parlo tutto il giorno con “ApoLux”, che non sei tu! Lo capisci?!..

Così dicendo si allontanò un istante, per recarsi presumibilmente al suo pc, visto che si ripresentò subito all’uscio più irascibile che mai:

-         Perché? Perché non c’è ApoLux lì sullo schermo? Cosa hai fatto?... Perché sei qui?..
-         Ines, tutto questo è assurdo.
-         No, l’unica cosa assurda è che tu abbia rovinato il mio rapporto con ApoLux! Io mi fidavo di lui, e adesso grazie a te è tutto finito. Lui non c’è più, e tu sei qui e mi parli con le sue parole, con le sue pause, con la sua faccia, con la sua anima..
-         Ines, ma..
-         Basta, vattene via! Non so chi sei e non mi interessa. Eri un nome su quel cazzo di monitor, mi trovavo bene a parlare con te. Un giorno forse saremmo stati anche pronti per vederci, ma senza alcuna certezza, perché io volevo solo sentire una voce vicina, una parola, un’idea, qualcosa da cui non dover rintracciare per forza fiducia, ma solo tanta comprensione. Invece tu hai lasciato quel computer per venire qui, credendo ti fosse dovuto qualcosa che andasse oltre quella chat. Perché non mi hai compreso, e non mi comprenderai mai più.

Apollonio sparì dal pianerottolo a passo di zombie. Schiantato come un insetto sul parabrezza dell’auto. La realtà aveva mostrato una delle sue tipiche crepe, quelle in cui ci si infilano alla perfezione i paradossi dell’uomo contemporaneo. La conoscenza senza conoscersi. Il parlare senza parlare. Il sentire senza ascoltare. Condividere senza che ci sia nulla da dare.
Tornato a casa, Apo distrusse ogni traccia della sua presenza su quella e altre chat a cui era iscritto. Più ci ripensava, e più quello che era successo quel giorno gli pareva meno triste di quanto non potesse immaginare. S’era preoccupato per tutto il tempo del tragitto di cosa avrebbe dovuto dire per fare una bella figura, e non aveva minimamente pensato all’idea che potesse non interessarle che lui avesse qualcosa da dire.

Apollonio allora pensò che era quella la vera natura dei legami fittizi della rete. Presupporre negli altri un interesse verso se stessi e le proprie opinioni, che però non c’è quasi mai. Chiudersi in recinti di amici definiti, per affrontare la moltitudine con più spavalderia. Illudersi di dover avere sempre qualcosa da dire. Su tutto, su tutti.
E pensò che questo non è stupido, ma solo brutalmente e drammaticamente eccessivo.
Quindi pensò a suo nonno, a quando andò ad assistere alla partita da solo. E si ricordò che quel giorno gli aveva fatto capire che essere uno tra tanti è l’unico modo per non essere nessuno.


domenica 5 giugno 2011

Il giorno in cui il passato tornò ad essere passato


"C'è qualche cosa di sbagliato nell'amore, c'è che quando finisce porta un grande dolore.."
Lo cantano i Marlene Kuntz. Parole che mi sono tornate in testa oggi allorché, per la prima volta nella mia vita, ho sentito dei foggiani accostare il nome di Zdenek Zeman a concetti oscuri come "tradimento" e "irriconoscenza". Anzi, più che concetti oscuri, vere e proprie accuse, pesanti come quei dubbi che neanche l'evidenza dei fatti riesce a lavare via. Macigni pieni di rabbia e sconforto, un impasto su cui purtroppo si reggono molte coscienze foggiane.
Un allenatore che lascia una squadra di calcio è uno degli avvenimenti più naturali del mondo. E a nessuno verrebbe mai in testa di chiedere motivazioni, implorare ripensamenti, decifrare sospiri e espressioni facciali: roba da tifosi. Folli adepti di una religione che, come tutte le manifestazioni di culto, ha anch'essa i suoi profeti, i suoi totem e le sue divinità.
Ci sono quelli, pochi, che celebrano indiscutibilmente la "maglia", emblema di quella tradizione che si autopreserva da sé, per il solo fatto di esistere, indipendentemente da chiunque le renda onore o disonore.
Ci sono altri invece, meno integralisti e purtroppo un po' più numerosi, che legano l'appartenenza alla propria squadra del cuore all'esistenza di un progetto almeno in prospettiva vincente, spesso attendendo da un campo di calcio quelle soddisfazioni che la quotidianità stenta a regalare.
E ci sono poi tutti gli altri, il resto dei tifosi insomma: più o meno attaccati; più o meno costanti; più o meno partigiani; accomunati da un solo grande tratto, quello di restare emotivamente ed idealmente legati ad alcuni dei personaggi entrati a far parte nella storia della loro squadra. Ai limiti dell'idolatria.

Ecco, l'idolatria: Zdenek Zeman a Foggia non è, e non sarà mai, un personaggio "normale". Merito o colpa di chi ha vissuto l'epoca d'oro della macchina da gol che regalava spettacolo sui campi verdi di tutta Italia.
La memoria non è un delitto. L'esaltazione di una realtà provinciale a laboratorio filosofico e pratico di un nuovo modo di fare calcio, con addirittura l'invenzione di un nome, "Zemanlandia", che servisse a identificare la residenza di un non-luogo; le soddisfazioni nella massime serie di una squadra ciclicamente destinata alla terza serie; la sorpresa, per il calcio dello spreco forzato dell'epoca, di un club povero che arriva a mettere paura con le sue risorse limitate; tutto ciò non è fantasia, è stato vissuto sulla pelle da molti. E seppure la retorica abbia esasperato col tempo certi elementi della storia, attribuendogli un valore mitico ai limiti del ridicolo, sarebbe altrettanto ingenuo non riconoscere ciò che è stato il calcio a Foggia negli anni di Zeman. In una sola parola: gioia.

Dopo di lui, che torna anche come spartiacque storico, le gioie per i tifosi rossoneri son state sempre meno, e sempre di più sono stati invece i rischi di vederlo chiuso una volta per tutte questo baraccone chiamato Us Foggia. D'altro canto anche Zeman ha collezionato più infortuni che applausi, e di lui s'è finito per parlarne più fuori che dentro il campo. Ma in tutto questo susseguirsi di annate più o meno deludenti, con la sorpresa negativa sempre pronta a far la sua parte (Avellino, 17 giugno 2007), per questa città il nome di Zeman è sempre rimasto lì, intonso, chiuso nella teca come le reliquie di un santo, e pronto ad essere tirato brutalmente in ballo ogni qualvolta si palesasse l'opportunità di sperare in una rinascita sportiva.

Poi, il 14 luglio 2010, a Foggia succede ciò che si riteneva impensabile: di nuovo il patron (che per forza economica ora è piuttosto un "garzon") Pasquale Casillo; di nuovo Peppino Pavone; di nuovo Zdenek Zeman. Di nuovo "Zemanlandia"? No. Forse un abbaglio, buono solo per tirar su qualche copia dei giornali; sicuramente una stagione positiva, ma niente di ché.
D'altronde, rimarcherebbe qualcuno, come si può rifare qualcosa che non è mai esistito?! Sarebbe come voler rifare lo stesso sogno fatto anni addietro. Gli innamorati dell'allenatore boemo non capiscono: ma come si può non preferire Zeman a qualsiasi altro allenatore sulla faccia della terra? Questione di estetica, di spirito, di virtù dell'uomo prima che del tecnico. A Foggia effettivamente c'è poco di cui gioire, e un personaggio di questo valore è meglio non farselo sfuggire. I risultati sono un dettaglio; ed anche se tutti vorrebbero vincere, all'uomo di Praga si perdona tutto.

La speranza di un futuro migliore colma anche gli appetiti più insaziabili, e per il Foggia Zeman è speranza e insieme garanzia di un futuro migliore. Si chiude gli occhi e si inizia a sognare. Ma qualcosa non va come tutti si aspettano, com'era logico che fosse per ricreare "Zemanlandia2", e non si fa in tempo a riaprire gli occhi che tutto pare un incubo. Inutile rifare la cronaca: il mister lascia il Foggia e i foggiani.
Una piazza intera ci rimane di stucco. Non capisce. E' durato tutto troppo poco, dev'esserci un errore. La realtà a volte si sbaglia, rimandate indietro la giornata, non può essere. Invece è così: Zeman ha deciso, molto semplicemente. Perché semplice è la vita delle persone.
Ma se alle persone si sostituiscono i miti, le divinità, gli esseri sovrannaturali, capire diventa più complicato. Quasi impossibile. Come chiedere a dio: perché mi hai abbandonato? La fede è la risposta a tutto. Devi accettare il destino. E invece no! C'è sempre un punto in cui l'idolatria arriva a far pugni con la realtà: bisogna richiamare l'attenzione, fare di più, offrire il vitello più grosso, sicuri che prima o poi la storia riprenderà il suo corso regolare. Follia. Pura, sincera e rispettabile, ma pur sempre follia.

Poi arriva il colpo duro, quello dell'ufficialità completa, la più difficile delle prese di coscienza, stazione ultima di ogni ossessione. E lì, dove in alcuni è diffusa solo una cocente delusione, mentre in altri vi è addirittura una paradossale negazione dei valori di colui che fino al giorno prima era innalzato al rango di "Messia", si fa largo per i più idolatri una vera e propria epifania della morte. C'è da elaborare un lutto, qualcuno è venuto a mancare, la sensazione è che tutto attorno stia scomparendo, nulla ha più senso.

E invece è successo l'esatto opposto. Una rinascita, aldilà della serie in cui si giocherà.
Zdenek Zeman non aveva mai lasciato Foggia. Il 1994 è sempre parso qui dietro l'angolo, pronto a riprendere il suo cammino alla prima occasione buona. Il passato aveva smesso di essere ricordo per essere invece misura e forma di ogni possibile futuro. La gloria di un'era idilliaca aveva trasformato in agiografia i limiti e le peculiarità di un uomo. Pulito, intelligente, preparato, ma pur sempre soltanto un uomo.


Quell'uomo che oggi, dopo 17 anni, ha davvero abbandonato Foggia. E l'ha liberata da un'ossessione.
Grazie Zdenek.