mercoledì 25 marzo 2015

Quelli che restano sono quelli che non se ne vanno. (Pare un post sui tifosi)


Restare più del tempo stabilito. Il sogno di una vita. L'immortalità.

Da bambino, quando mi portavano dai miei cugini, o ancor di più quando la sera andavo con papà da Tonino per vedere i primi posticipi della domenica di Serie A, albori della pay-tv, ed io però in realtà volevo solo giocare con Pasquale, suo figlio, perché ci divertivamo un mondo.
Poi, più avanti, quando dai miei cugini ci tornavo per vederle io le partite, e una volta finite si doveva risalire in auto e rientrare a casa, anzi sotto casa a cercare parcheggio. E più avanti ancora, nelle prime sere strappate al solito appuntamento dai nonni, in giro con gli amici a stare, con quel dannato orario limite a cui rubare ogni volta cinque-minuti-cinque, fino a dilatarlo di mezzore ed ore.
Allora le serate a cena dagli amici, e i "resto qui a dormire" pieni di balle su dove si fosse davvero, e i weekend organizzati e rovinati per non essere riusciti a trovare un modo credibile per giustificare tutti quei giorni fuori casa, sperando di guadagnarne sempre uno in più. Come si fa con i minuti d'amore, mentre lei preme con le sue mani per averti e per chiederti di non venire, e anche tu vorresti restare ancora un po' qui. Dentro. E oltre.

La prima forma di libertà che mi viene in mente è sabotare il tempo.

Ho assaporato la materia dell'indipendenza la prima volta che sono andato allo stadio da solo. Non perché non avessi nessuno a controllarmi o a badare a me, bensì soltanto per la possibilità di scegliere da me dove stare e soprattutto fino a quando restare. Non quanto tempo, ma per quanto tempo ancora.
Ricordo bene un episodio. 7 gennaio 2001, Foggia-Acireale: il Foggia non riesce a sfondare il muro alzato dai siciliani, la partita sembra una di quelle destinate allo 0-0 anche a distanza di giorni, e a quei tempi un pareggio in casa non è per niente cosa gradita. Così mio cugino più grande, compagnia essenziale e nume tutelare di quegli anni di stadio, decide irritato per la ritirata: al 90esimo, non vuole neanche vedere il recupero. Non riesco a fargli cambiare idea, probabilmente non ci provo nemmeno. Siamo fuori dalla struttura in pochi passi, e dentro l'auto in un paio di minuti. Via.
All'arrivo a casa sua, e alla tradizionale verifica defaticante dei risultati sul televideo (pratica che resiste indefessa nonostante l'usura tecnologica), tra le righe sparpagliate si legge: FOGGIA-ACIREALE 1-0. Quando avevamo segnato?? Chi, perché, come?? Si scoprì poco dopo che negli ultimi secondi di gara, in una mischia casuale e un po' fallosa, e per questo meravigliosa, il nostro ex bomber Gigi Molino aveva trovato il modo di battere il portiere nemico.
Giurai, quel giorno, che non sarei mai più andato via prima della fine. Capii, nei mesi a seguire, che la fine non sarebbe stata più quella decisa dal fischio dell'arbitro.


Anche per questo, caro ragazzo, anzi bambino, quando ho visto la foto che ti ritraeva solo nel bel mezzo della storica Curva Sud romanista, chissà se per scelta tua o perché maldestramente dimenticato, non ho avvertito la benché minima impressione di sentirti perso.
I tuoi compagni di fila avevano abbandonato il settore per protesta contro la batosta che la Roma stava subendo dalla Fiorentina, mentre una parte dei rimanenti era più in basso e aspettava soltanto che finisse la gara per urlare ai propri giocatori, perché certe volte va fatto, ma chissà se fosse questo il caso, che la maglia va onorata, sempre. Perché una casacca che rappresenta la passione e la storia di una comunità non è proprio la tuta del pilota Ferrari e nemmeno la divisa dello schermidore. È un pensiero non facile, a molti non va giù, ma quando lo senti allora sai di cosa sto parlando.
Ci sono molti modi di rimanere, insomma, e chissà tu a quale di questi fai riferimento. Ma eri lì, e ciò basta a farmi pensare che, nonostante la cocente sconfitta, quella resterà forse la partita più bella della tua vita.

Ci sono molti modi di rimanere, e di andare oltre il tempo che ci si era dati.
Vero Pasquale? Una vita intera appresso al Napoli, e la fatalità di una sola serata per spegnere tutto. A Mosca era freddo, il cuore poteva pure essere preservato per una gara non fondamentale, la qualificazione era quasi in cassaforte, e a qualcuno sarebbe venuto il pensierino di restare a casa. Ma non a te, non a quelli come te, non a chi il tifo lo sa fare solo in questa maniera, oltranzista. "Ultras", non a caso, li chiamano. Io li chiamo generosi. Né buoni, né cattivi. Qualcosa di più. Qualcosa che va, appunto, oltre. E che resta.

martedì 10 marzo 2015

L'oro di perdersi


Mamma, vorrei solo sentirlo, riassaporare il suo tono caldo e vago, ti giuro mamma, non è altro che chiedo, solo quelle parole trascinate sul fondo, lì dove i concetti chiedono di essere chiusi e lui mi affaticava trattenendo attimi al mio spazio di risposta, soltanto un'altra volta il suo "Pronto, Giulia?!", per prendersi il tempo necessario a prepararsi a esordire con "Amore, mi senti?", solamente ancora un'ultima volta quell'intrattenersi teatrale, quelle sillabe sempre equamente divise al suono di "Che ne dici se...?", e poi in realtà aveva già deciso, solo quello, solo l'ansia che potessi dirgli di no, solo quello! Solo sentirlo!

Domani ti arriverà una telefonata.
Sarò io.
Rispondi, ma non parlare.
Dimmi solo dei "sì", decisi, quando mi interrompo e credi di aver capito.
E dei "no", altrettanto chiari, lì dove mi sarò fermato e sarai confusa.

Il bigliettino di Luca, nella sua forma sconclusionata, non lasciava dubbi. L'avrebbe chiamata, per darle l'ennesima opportunità di non scelta, stavolta soltanto un po' più netta. Non posso essere sicura, ma potrebbe trattarsi della solita storia, di quei weekend fuori porta che fanno una volta al mese, e che finanziano con l'oro di battesimo e comunione di Giulia. Ha sciolto e svenduto ormai quasi tutto, e pensa io non me ne sia accorta.
Io, la mamma. Io, che ha messo quell'oro lì dove lei va a prenderlo per disfarsene.
Non mi offende l'idea, né mi scandalizza l'immagine, la scelta o quello che fanno dei soldi ottenuti con quelle cianfrusaglie. Mi spiazza la facilità con cui mi tiene fuori da tutto questo, come se lui fosse il capo da proteggere, e noi il bestiame da ignorare.
Però è a me che lamenta la sua assenza; è con me che si torce le budella per tutte le volte che Luca s'è finto l'uomo della sua vita, prima di sparire uno, due, tre giorni nel nulla di assurde crisi di panico. Povero figlio, ha degli attacchi e non sa cos'è; così sparisce da Giulia, che è molto più matura di lui, e saprebbe pure come prenderlo, ma non sa come dirglielo. Teme di passare ai suoi occhi per il maschio della coppia. Teme di essere più forte.
Povera figlia. Poveri ragazzi. Pensano di essere moderni, ma soffrono paure di cui mia madre avrebbe riso.

- Ciao Giulia. Lo so, ho fatto un patto con te mille volte, mille volte ho rischiato di frantumarlo, e ho promesso ogni volta di non ritornare allo stesso punto. Ti ho detto che avrei preferito deluderti piuttosto che ferirti ancora. Mi hai avvisato che solo su un punto saresti stata intransigente: niente ipocrisia, nessun tentativo. "Fai quello che devi, ma fai quello che credi: noi non stiamo insieme tanto per...!"

- Sì.
- Giulia: se mi ami, domani parti con me! Prendiamo due biglietti, troviamo un volo per una meta a caso, spariamo insieme e stacchiamoci da questi problemi!  Con l'oro che ti resta dei soldi li abbiamo, ricominciamo in un altro posto, tutto da capo! Io ti amo, ma qui non è possibile! I rancori che abbiamo seminato ci stanno divorando, io ho paura di ogni passo: siamo immobilizzati, cazzo!

- No.
- Aspetta, mi spiego meglio: ho detto domani, ma non dev'essere per forza domani. Dico nei prossimi giorni, soltanto che sia il prima possibile...
- No. Adesso non stai capendo tu: ho detto no!
- Aspetta Giulia, lo sai che se non posso perd..
- ..Ecco: non vuoi perdermi, ma non vuoi stare con me. Qui ora. Conserva bene il mio amore. Addio!


Quel "no" era l'unica parola che mi rappresentava ai suoi occhi, in quel momento. Ed è stata la parola che ha ricevuto, ma non come credeva.
Ha provato a fare suo anche il mio rifiuto, a togliermi il diritto di negarmi, concedendomi il "no" per le volte in cui non avrei capito.
Semplicemente, ancora una volta, non voleva che scegliessi; ma stavolta perché aveva paura che avrei scelto di continuare ad amarlo.

giovedì 5 marzo 2015

"Fra Sestri che picchia dodicenni in Villa Rossi". Quando la violenza è un verbo di Facebook


C'è un video che sta girando su Facebook da qualche ora. Dovreste poterlo vedere, è un po' duro e forte, ma niente d'eccessivo. Insomma, a chi non è capitato di assistere a una rissa, o a un pestaggio, anzi, di quelli veri, dove il rumore delle botte fa da sottofondo ritmato alle urla che sputano rabbia e dolore.
Ci sono dei giardini comunali: quelli di Villa Rossi Martini, meglio conosciuta solo come Villa Rossi, a Sestri Ponente. Praticamente Genova, ma non proprio. Comunque Liguria.
C'è lei, quella che le dà. Ha 17 anni, o almeno così è scritto: è tozza, bassa, ha dei tratti marcati e un abbigliamento involontariamente casuale, con dei capelli neri, legati, che seguono ignoranti le mosse della sua testa.
C'è l'altra, che le prende della cosiddetta "santa ragione". Pare sia non più che 12enne: cappotto rosso (forse un Woolrich), blue jeans e stivaletti neri come quei capelli tirati e presi a pedate per i circa due minuti e mezzo di immagini. In faccia, la smorfia, malmenata, di una bambina che si è arresa all'evidenza di voler essere cresciuta troppo in fretta.
Quindi ci sono gli altri, i guardanti e i filmanti, gli spettatori e i tifosi silenziosi o inconsapevoli. Perché chi resta a guardare ha sempre una ragione, e chi non muove un dito lo sa bene dove ha tenuto le mani in quel momento.


Ah no, non è tutto. C'è, infine, il pubblico social. La quinta dimensione dell'esistenza, la profondità accennata che si materializza in lunghezza, perché è da questo metro che si capisce se un post ha fatto successo, scalpore o semplicemente provocato la più terribile delle esigenze: quella di commentare. Di dire che sì, si fa! Oppure no, non si fa!... E partono così le identificazioni di genere ai danni della violenta mini-teppista, condite da tentativi di soluzione (finale).

Puttana.

Ebrea.

Ritardata.

Gesù.

Militare.

Napoli.

Provincia di Foggia (auto-accusa campanilista).

Pericolo D'Urso.


Botta d'ironia.

Allora ci sono cascato anch'io. Non su Facebook, direttamente. Ma qui, ora, scrivendo a un lettore che non c'è, perché non c'è l'obiettivo di questo mio post, e di queste mie parole.
Nel frattempo la Procura di Genova ha pure aperto un'indagine per concorso in lesioni aggravate, partendo appunto dalle immagini arrivate sul social network dopo essere state caricate su Whatsapp da qualcuno che voleva evidentemente vantarsi e godere dello scempio di un pestaggio impari.
Come la stessa autrice, questa giovane, una volta nota come Fra Sestri, che dal momento dell'ascesa 2.0 delle sue prodezze manesche ha capito di aver chiesto troppo persino al suo egoismo in erba, finendo col cancellare il suo profilo e venendo "sostituita" dalla pagina "Fra Sestri che picchia dodicenni in Villa Rossi". Che credo non abbia bisogno di introduzioni di rito.
Si tratta, in ogni caso, di una specie di pagina di denuncia, anche se qualcuno ha avuto più di un dubbio, e in molti hanno pensato di segnalarla per pubblicità o vero e proprio incitamento all'odio. Mentre parecchi altri hanno apprezzato il tentativo di sputtanamento mediatico della scalmanata che si accanisce sulla povera ragazzina come in un picchiaduro.
Nel caos, ecco però creato l'imbuto di indignazione pronto a canalizzare, verso un unico contenitore, la rabbia di chi si è sentito violato e turbato da un episodio che forse avrà giustizia, o forse no, ma che all'atto pratico/comunicativo dimostra come la violenza non sia tanto un modo per risolvere i conflitti, quanto sempre di più una chiave per accedere alle dinamiche di una società disgregata e bisognosa di vendette e punizioni.
Come se chiunque, scrivendo su Facebook, bonificasse personalmente la propria coscienza dal peccato di non essere stato lì, dove una diciassettenne in trance di protagonismo e cattiveria sprecava tutto il suo disagio contro una povera adolescente indifesa, mentre altri ragazzini, spettatori inermi travestiti da incarnazioni social della realtà virtuale, assistevano silenti.
Pronti anch'essi, dopo, a puntare indici. Voci del verbo commentare.

lunedì 2 marzo 2015

La scelta di stare in mezzo alla strada


È importante ricordarsi di morire in tempo, di non andarsene prima che sia troppo presto.
Vestirsi in modo discutibile, e far credere che non sia una cosa voluta.
Girare la testa nei momenti decisivi, e togliere immobilità allo scatto.
Tenere le mani solo nelle proprie tasche.
Non avere paura di proteggersi.
Cantare la rincorsa all'infelicità alzando la voce solo se necessario.
Camminare a testa normale, ché non si ha sempre qualcosa da dire o nascondere.
Giudicare e non temere d'essere giudicati.
Inventarsi una giustificazione per ogni opinione errata.
Accorgersi d'essere al centro dell'attenzione.
Lucidarsi le occhiaie per una nuova giornata di stanchezze.
Mangiare, e imparare a dimenticarsi di avere fame.
Protestare contro i sorrisi falsi e gli alberi abbattuti.
Evitare di nominare chi non dovrebbe esserci, ma rimane.
Desiderare le botte solo quando si sa d'esser capaci di prenderle.
Avere una bandiera di riferimento solo se non cambia strada.
Coprirsi il volto senza smettere di riconoscersi.
Verificare di non aver perso niente.
Essere di parte su se stessi.
Chiedere di poter partecipare al proprio funerale.
E sapere che c'è qualcuno disposto a fare quegli stessi passi.