giovedì 28 maggio 2020

Lettera aggiornata di Luigi Pinto allo Stato.

Salve. Ho 71 anni e mi chiamo Luigi.

Sono alto, abbastanza, e i capelli ormai mi si sono quasi tutti imbianchiti. Però li porto bene, sono lunghi il giusto.
E ad Ada piacciono. Ah si, scusate, non vi ho presentato Ada: è mia moglie, siamo sposati da 47 anni, e 47 anni sono tanti se tutte le albe e tutti i tramonti portano lo stesso sentimento. Voi non potete immaginare quanto è bello sapere di esserci. Io la vedo lì, ogni giorno, da quando avevo poco più di vent'anni, ed ogni giorno noto in lei qualcosa che il giorno prima non immaginavo. Ieri, ad esempio, l'ho vista uscire di casa e ho registrato che, per arrivare all'uscio, passa in mezzo ai due specchi dell'ingresso guardando sempre prima quello di destra e poi quello di sinistra. Sempre.
Niente di eccezionale, note a margine per gente che si ama. Non potrà mai stupirvi un dettaglio simile se lei, le sue mani, la sua bocca non fossero l'unica cosa che cercate da quando avete memoria dell'esistenza della donna. Ringrazio il destino che me l'ha fatta conoscere, e che mi ha permesso di amarla, finora.

Sono andato via dalla mia città, da Foggia, dopo il diploma. Triste di dover lasciare la mia famiglia e la mia casa, ma quando sei nato in una famiglia proletaria e vuoi soddisfare certi bisogni o solo stare al mondo, beh, la strada è segnata. Serve un lavoro, per essere indipendenti. Così di mestieri ne ho fatti tanti: operaio in uno zuccherificio, minatore in Sardegna, quindi impegno e buona sorte mi hanno portato la prima cattedra in applicazioni tecniche presso una scuola media di Rovigo.
Ho girato tanto, davvero. Dopo Rovigo, sono partito per un istituto di Ostiglia, in provincia di Mantova. Mi ricordo la centrale termoelettrica, con quelle torrette disturbanti: enormi caramelle gommose piazzate a svettare su un paesaggio dolcemente anonimo.

Quindi mi hanno trasferito a Siviano, una frazione del comune di Monte Isola, in provincia di Brescia. Si affaccia sul lago d'Iseo. Un posto bellissimo. Come avrei potuto non restare qui? L'umidità non dà tregua, questo è vero. D'inverno il freddo è pungente come una fitta continua, e d'estate l'afa ti pianta un mantello sulla pelle come se volesse rapirti. Ma le viuzze strette in salita, dove non riesci nemmeno a ipotizzare la strada che avrai davanti dieci metri dopo, le scale piene di persone variamente operose, e poi quelle pietre che stanno bene su tutto, sempre uguali, sempre le stesse, che quasi ormai me le ricordo una per una: tutto qui mi è familiare, vicino.

Amo mia moglie, mia figlia, questo paesino, i miei problemi. C'è molto che non va, ma non lo dirò a voi. Piuttosto che lamentarmi preferisco urlare, per quel che posso alla mia età.
Ero, sono e morirò antifascista. Non voto il Pd, non mi merita. Come non ho mai desiderato di avere a che fare con i populisti, con chiunque blaterasse solo di "casta", di Berlusconi, di corrotti e di quell'eterno ricorso alla legalità che puzza di fascismo latente. Io sono di sinistra. E non scelgo nessuno, adesso non ce la faccio.
Spero che le cose cambino, spero che ai ragazzi venga data la possibilità di dimostrare il proprio valore. Spero che possano avere una storia simile alla mia.
Che poi non è proprio la mia, ma quella che avrei voluto, o forse anche solamente potuto avere. Una delle tante, se solo il 28 maggio di quarantasei anni fa, a Brescia, in piazza della Loggia, durante un comizio antifascista, non fossi saltato in aria. Avevo 25 anni.

Quasi tre anni fa ho scoperto che della mia morte, e di quella di altre sette persone, hanno colpa Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Neofascisti, non ex di Ordine nuovo - perché di essere quella roba là non si smette mai. Non è tutto, però. In realtà ci sarebbero altri responsabili, ma è ormai impossibile individuarli: sono morti loro, o è morto chi avrebbe potuto dimostrarne la connessione all'attentato.
La sentenza parla infatti di 
«intrecci che hanno connotato la mala-vita, anche istituzionale, dell'epoca delle bombe». E poi parla di «opera sotterranea», di «coacervo di forze». Non ci vuole una mente geniale o complottista per capire che tra le strutture di governo qualcuno conoscesse, permettesse e indirizzasse le attività stragiste. Non serve attendere il disvelamento dei segreti, basta esserci morti dentro.
Ma questo qualcuno è ormai nessuno. E se nessuno ha ordinato o lasciato innescare quell'ordigno, significa che quell'ordigno non è mai esploso. Significa non c'è stato alcun attentato. Significa che non ci sono assassini e quindi che non esistono nemmeno i morti. Allora sono vivo. Si, sono vivo.

Grazie democrazia, grazie mio amato Stato: è solo merito vostro se posso dirmi resuscitato.

Tuo,

Luigi Pinto.


(Post pubblicato per la prima volta ad aprile 2012. Modificato, in parte, oggi 28 maggio 2020.)

mercoledì 18 marzo 2020

Se fine deve essere


Per ogni fatto che sconvolge la nostra esistenza, ce ne sono almeno due più gravi.


Il camice non va. Troppo stretto, soprattutto di maniche, e non va molto oltre al di qua del gomito. Per fortuna siamo in casa, non dobbiamo assistere nessuno e nessuno può vederci. L'importante è riuscire ad indossarlo per qualche minuto affacciati alla finestra, il tempo necessario ad una canzone corale e a degli applausi. Sentiti. Strepitanti di pena.
Ché non lo sappiamo mica come si esce da questa storia maledetta. Vediamo i morti ed abbiamo paura; cioè non è che li vediamo, li contiamo; insomma non è che li contiamo davvero, non potremmo mai, quindi ci fidiamo. L'ansia ci viene addosso da ogni direzione: rimbalza sulla tv, tocca i giornali, fa sponda con i messaggi delle chat sul telefono, salta fuori dalla finestra e cade per strada, si sparge, la svuota.
Non del tutto, però. Donne e uomini camminano, le auto sfrecciano. I lavoratori vanno dove devono, gli ansiosi dove possono, tutti gli altri dove credono di dover andare. Ma non c'è pietà, in nessun caso. Non sappiamo cosa pensare, con le pantofole ai piedi da settimane, i capelli grigio unto e le giornate che si ripetono uguali una dopo l'altra, ma di un uguale diverso da prima. Incomprensibile, severo. Vissuto negli intervalli tra la paura di un colpo di tosse, la sensazione di una febbre perenne e l'ascolto quotidiano di una nuova spiegazione su cosa bisognare fare, e su quanto sia già troppo tardi per farlo.
Dopo aver intonato l'inno, e aver svestito il camice di riconoscenza, temere la morte è ancora più facile e naturale. Basta incrociare uno specchio o un vetro, mentre torniamo alla poltrona, e riscoprirsi in un lampo per ciò che si è: vecchi. Non così tanto da attendere la fine con inconscia serenità, ma abbastanza da sentirsi parte di quella fascia in cui l'età di un lutto può smorzarne la compassione.
Perché i vecchi muoiono, e noi lo siamo. Ma non tutti muoiono soli, e noi invece lo siamo. Il tricolore fuori non volevamo appenderlo, "Azzurro" non l'abbiamo mai cantata e non sappiamo nemmeno se i nostri vicini di casa sono sempre quelli di due mesi fa. Se solo sapessimo come poter essere utili, ci proveremmo. Ma continuano a dirci solamente che andrà tutto bene, o che al massimo moriremo noi.
Non sarebbe forse così male, poi, andarsene tra questi grandi numeri. Anonimi, dispersi nella massa delle notizie di cronaca. Nessuno a guardarti soffrire, nessuno costretto a piangerti. L'idea che succeda come una di quelle cose che capitano nella vita. Eppure nulla cancella le chiacchiere a sproposito, i grafici senza uno scopo, gli attacchi a chi non può difendersi. E i malesseri si diffondono, superano protezioni fasulle ed occupano l'aria. Abbiamo un incubo: essere ancora vivi al termine di tutto questo e aver paura di mostrarlo, di uscire.
Per questo ci troviamo spesso, ultimamente, a spegnere e smettere di ascoltare tutto. Meglio un libro già letto, meglio il silenzio. Se fine deve essere.