giovedì 14 settembre 2017

You'll Never Walk Alone


Il primo giorno inizia tanti anni prima. Quando decidi, quasi autonomamente, di iniziare a zompettare con le tue gambine su quel corpo senza equilibrio nato poche decine di mesi addietro. Scappando ai corridoi di casa, alle braccia materne e alle rincorse paterne. Scoprendo nuove camere, spazi inaspettati, spesso al buio, per tornare quindi subito indietro, divertito dallo spavento per aver bazzicato l'ignoto, sempre con gli stessi passi sbilanciati. Riprendendo allora di nuovo l'avventura fatta di saltelli in avanti ancora più instabili e veloci. Perché si inizia forse prima a correre che a camminare.

E ciò che accade dopo è tutto un seguito, tutto un poi. Anche se di limiti e di confini se ne ripresentano sempre di nuovi, con tante nuove stanze e tante nuove porte da superare. L'azione di base, però, resta sempre quella: il bambino che va e viene, a sussulti ritmati, inaugurando inconsapevole i suoi freschi muscoli. Teso come un palloncino ancorato alla ringhiera del balcone, fatto della stessa tensione verso la fuga e della stessa imprevedibile oscillazione nello spazio circostante.

Ogni primo giorno parte dalla stessa eccitazione dell'EVASIONE, della deviazione che ti strappa a una routine di cui sin da piccoli, ma forse anche da adulti, non abbiamo nemmeno coscienza. C'è poi la CURIOSITA' di scoprire chi troveremo accanto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro; cosa poter GUARDARE, se ne avremo il tempo; chi odieremo, se ci spaventerà; fino a dove riusciremo ad arrivare senza farci CONDIZIONARE. E c'è infine tutta l'adrenalina che nasce dalla PAURA di perdersi e di perdere, di smarrire la via del ritorno verso ciò che ci dà sicurezza; di non avere nessuno con cui RIDERE e a cui RACCONTARE il proprio incubo; di non saper rifare al contrario la strada fatta e di non avere, o non CAPIRE, chi possa insegnarci o indicarci un nuovo cammino.

Per questo, io non dovrei avere alcun timore. Perché Tu sola non camminerai mai.



lunedì 12 giugno 2017

Vite. Di strati


Mi capita spesso, camminando, di interrompere il passo e sollevare i talloni, voltando lo sguardo indietro verso la suola della scarpa, per vedere se è sempre pulita. Succede quando vedo che la strada è lastricata di macchie irregolari, quando l'asfalto è scuro e poco interpretabile, e soprattutto quando sento odori sgradevoli, anche a distanza di metri.
È un'abitudine strana, perché le dedico molto più impegno dell'attenzione a dove mettere i piedi o alla direzione che sta prendendo la mia marcia. Per dirla in parole povere: è molto più probabile pesti una merda o che mi stampi contro un palo, piuttosto che mi metta a camminare col fondo delle scarpe bagnato o incollante ed appiccicaticcio.
Per questo, quando passeggio, mi ritrovo a pensare ad ogni passo: "cos'è successo qui?", "chi ci sarà passato?". Un giorno di pochi giorni fa, durante una pausa o forse mentre riprendevo stanco la strada di casa, attraversando un porticato mi sono accorto di aver lasciato un'orma su una piccola superficie liquida. Una chiazza. Non aveva piovuto almeno nei dieci giorni precedenti, nessuno stava lavando nulla, di bottiglie rotte neanche una traccia.
Come ho spiegato prima, mi accorgo sempre in ritardo di dove ho messo i piedi, ma quando lo faccio, se ho pestato qualcosa che ha lasciato il segno, non riesco più ad andare avanti. Dopo una falcata con l'altra gamba, quella "immacolata", mi fermo. Lo sguardo in basso, distratto, ora si concentra sul perimetro della chiazza, non trascurabile. Quindi si estende a cercarne una fonte, che non fossi io, nello spazio immediatamente esterno. Non serve molto: a meno di due metri un uomo è steso a terra.
Appartiene tutto a lui, quel liquido, gli odori attorno, il mio blocco. Fingo di fissare bene cosa è gli successo, ma vedo senza guardare. Mi sento catapultato in un posto segreto in cui non riesco a capire quale nesso ci sia fra la mia e la sua esistenza, come possa ritenermi sullo stesso pianeta di un uomo identificato da una sagoma di roba fuoriuscita dal corpo. Nel mentre il mondo scorre, lento ma inesorabile come i rivoli che si dipanano dall'area centrale della chiazza; ed evitare di palesare espressamente che il mondo siamo noi sarebbe una vigliaccata.
Restano, e qui lascio, piccoli censimenti di sentimenti spregevoli, nel tentativo forse vano di preservarli da retoriche e strumentali autoassoluzioni.
La strada che guadagniamo quotidianamente, misura dopo misura, non è fatta solo dai passi degli uomini che l'hanno attraversata prima di noi, ma anche da quelli che abbiamo lasciato ci vivessero sopra.

mercoledì 29 marzo 2017

L'attaccante che voleva spazzare (pubblicato su Minuto 78)

"L'attaccante che voleva spazzare"
(Breve racconto ideato e scritto per Minuto Settantotto.it)


Una ragazza palleggia: sinistro-destro-coscia sinistra-interno spalla sinistra-testa. La palla resta sospesa nell’aria, in attesa di ricadere per essere nuovamente colpita.

Una donna ha indosso la giacca di una tuta, marca Legea. I pantaloni sono grigi e di cotone; le scarpe, di un grigio più chiaro, sono più alte dietro, in corrispondenza del tallone, un accenno di tacco ma con la pianta uniforme e regolare. Guarda i ragazzi passarsi il pallone “di prima”, destro e poi sinistro, sempre rasoterra, uno di fronte all’altro, oscillando ad ogni passaggio da un lato all’altro dell’asta che hanno davanti come ostacolo.
Il vento è gelido, il cielo non promette nulla di buono. La donna alza il cappuccio della tuta sui capelli, per natura lunghi fin sotto il collo ma adesso nascosti anonimi all’interno della maglia col colletto alzato, dietro la schiena. Quasi invisibili, come vorrebbe essere la donna. Ma, sugli spalti, le poche decine di occhi presenti sono tutti per lei, che fatica a concentrarsi sulle cose importanti: «Porco d** Marco! Alza di più le gambe quando ti sposti, datti slancio cazzo, non sei un manichino». Bestemmia la donna, pure, che tempi… Lo sa, la donna, cosa staranno pensando quelli là.

La palla, alzata con la testa mentre la coda di capelli stretta dall’elastico rimbalza al centro della schiena, ricade sulla coscia destra, appena sopra il ginocchio, con il braccio sinistro che si stacca dal fianco e si apre per dare equilibrio a tutto il corpo.

Inizia a piovigginare, gocce rade ma fastidiose, la felpa col cappuccio è una salvezza. La donna guarda il cronometro, sono passati solo venti minuti e i ragazzi sembrano già aver perso la concentrazione: «Allora!?! Imparato, che fai con quella mano sui fianchi? Muoviti sul posto, stai in tensione, non sei in fila al supermercato!». Adesso l’esercizio riguarda le conclusioni: c’è il vice-allenatore che crossa da destra e uno dei portieri (l’altro è tra i pali) che fa lo stesso dall’altra fascia, a turno ogni ragazzo entra in area e deve tirare verso la porta, ma non sa prima da dove arriverà il cross, questo lo decide la mister alzando a suo piacimento il braccio destro, o quello sinistro.
Alla donna piace particolarmente questo allenamento. Da attaccante di razza, figlia di attaccante di razza, si ricorda di esserci praticamente nata con la voglia di calciare verso la porta. Certo, ci fu poco da ridere quella volta che, durante una trasmissione sportivonazioalpopolare, un noto opinionista, prestato al calcio dal divano d’attesa di un barbiere, le chiese ridendo, con malizia spacciata per ironia: «Quindi a te piace concludere?...»

Dopo il colpo con la coscia destra, la ragazza ne programma subito uno di coscia sinistra; segue un sicuro interno piede destro che fa restare la palla vicinissima al busto, pronta per essere rigiocata ancora con la parte superiore del ginocchio sinistro, a gamba piegata di 90 gradi.

Quale pena, rifletteva tra sé la donna ripensando a quella battuta idiota, mentre il vento alzava volume e intensità, ed i ragazzi intanto si divertivano a rincorrere di volta in volta chi aveva la palla in mano, una specie di rugby anarchico misto a “guardia e ladri” in cui non ci si può liberare del pallone prima di averlo difeso per almeno 30 secondi, esercizio ideato per provare a gestire mentalmente la pressione dell’essere inseguiti dagli avversari quando si è in possesso palla difensivo.
La donna ricorda in breve sequenza i pomeriggi passati a organizzare giornate di allenamento, le esperienze con formazioni femminili prima nel calcio a 5 e poi in quello a 11, l’ascesa fino alla vittoria di due campionati nazionali, la decisione di voler far parte del più chiacchierato e pagato pallone maschile, i buoni risultati in Serie D, adesso la chiamata della Primavera di questo club di Serie A, non di prima fascia ma cosa conta. In sottofondo, un unico e solo pensiero: non sei adatta a loro.

Un ultimo colpo di testa, allora, un po’ più deciso, per far carambolare matematicamente la sfera sulla caviglia sinistra; da qui, la palla ruota in aria di una trentina di centimetri o poco più, e lo fa con i giri giusti. Ecco, è arrivato il tempo: il gomito mancino si risolleva, la gamba sinistra fa un saltello per dare ampiezza al movimento di quella destra, che oscilla all’indietro, per caricarsi e…

…E quante volte ha pensato, la donna, di spedire lontanissimo tutte quelle paure e quel disagio. Mandare via le stronzate e quei discorsi da bar della facoltà di sociologia. Studiare l’avversario. Preoccuparsi di avere una squadra che corra in buona salute. Consigliare ai ragazzi le migliori abitudini fisiche. Colmare le ovvie lacune rispetto ad un mondo che sa di dover imparare a conoscere meglio, come tutti.
Pensare soltanto al pallone.


Come faceva da ragazza, quando aspettava che la palla scendesse, caricava la gamba destra in avanti, irrobustiva la caviglia, lasciava andare il collo del piede e calciava. Fortissimo. Spazzando la palla, e tutti i suoi sogni, tra gli astri. Lì dove non c’è forza di gravità, e le discriminazioni non hanno peso.