sabato 29 dicembre 2012

Quattro funerali e un matrimonio



Certe parole certe frasi sono fatte per non essere dette.
Come "sto per cadere": sei già caduto, al massimo stai cadendo. Ma non sai quando stai per cadere, a meno che non ti sia buttato volontariamente. Ma allora sarebbe un suicidio sintattico, e per la chiesa il suicidio è peccato mortale. Ed è un peccato anche non parlare bene l'italiano.

Soltanto Gesù poteva dire "sto per essere crocifisso". Ma non vale: lui già sapeva, aveva scritto egli stesso la storia di cui sarebbe stato protagonista, era autore del suo monologo insomma. Anzi, ha fatto di tutto perché ciò andasse come aveva previsto, perché sapeva pure della cattiveria dell'uomo, e a questa si è appoggiato, per morire e risorgere.
E se Gesù adesso è quello che è, deve dire grazie agli uomini: ché se fossero stati buoni e l'avessero lasciato in pace a proclamarsi figlio del Padre, non ci sarebbero state né croci né risurrezioni. E saremmo tutti ebrei.

Nessun uomo pieno di senno direbbe mai "mi sto innamorando". Se lo dici è perché lo sei già, oppure perché non lo sei e ti proteggi, aspettando la celebrazione. Come ci si confessa per fare la comunione: non ti assolve né Dio e nemmeno il prete, ti assolvi tu. Con la tua presuntuosamente infinita coscienza.
"Ti stai innamorando" quando hai smesso di camminare. E vedi la strada fatta, realizzi che ce n'è ancora tanta e rallenti, pensando che in fondo sei ancora in tempo per tornare indietro. Oppure perché vuoi goderti gli ultimi chilometri.
Ma allora ti sei già innamorato. O forse ti sei soltanto perso.

E così è stato quando ho pensato "sto per lasciare la mia città". Quella punta di rassegnazione che mi aveva permesso di dirlo valeva già come la più esemplare delle prese di posizione: io qui non ci sono più. Mi sono immaginato la stessa immondizia, le stesse serrande e gli stessi sbadigli da Mantova a Salamanca o a Bari.
Credevo di farmi, e di farle, un favore con quell'avviso pubblico che tutti, dall'arbre-magique ai libretti sparsi nel cruscotto, avevano ben inteso: vi ho immaginati con me distanti da questo caos.
Ho pensato per un istante di riportare quegli stessi umori in un altro posto, come si porta dietro una cartolina o un conato di vomito in attesa di sbocco più curato.
Ed ero via; se non già io, quantomeno la paura di aver rinunciato alle radici della mia problematica ricchezza: la mia città morta.

Quindi ho finito per sedermi. Gli invitati c'erano ormai tutti, piangenti e sbarbati, soprattutto le donne. Tutte tranne la mia: era accanto me fino a un minuto prima, poi il tempo di un tramonto e nel buio ne avevo perse le tracce.
Così ho guardato avanti, come si consiglia: e lei era lì, bianca sull'altare di un altro sposo.



martedì 4 dicembre 2012

Il dolce fascino di vivere fuori sincrono

Sono alla ricerca di una colonna sonora.
E di parole. Perché se mi ascolto mentre penso, rischio seriamente di stonare.
Oggi sull'autobus aspettavo con ansia che scendessero tutti a quella solita fermata del cazzo. Non per tornare  a respirare: alla puzza ci ho fatto il callo, ho smesso di lavarmi anch'io. Piuttosto per riprendere a canticchiare quel passeggio di note e parole che è stucchevole ritmo della mia apparente serenità.
Dolce è la città che corre e ti ignora, più di quanto non parrebbe dal menefreghismo di facciata. Così è un bel periodo che odio i luoghi affollati, quelli dove ti ritrovi per forza a guardare in faccia qualcuno. E finisci allora per specchiare la tua condizione nella tristezza di quella signora che l'ultima volta che ha scopato col marito c'era ancora Corrado col maestro Pregadio, oppure ti giudichi migliore di quegli stupidi ventenni tutta vita e playstation, o forse scambi il grigio armamentario di un giovane neo-lavoratore per la proiezione speranzosa di ciò che non vorresti essere mai, ma che in realtà brami ardentemente.
La routine piena, codificata. Non quegli scampoli faziosi di appuntamenti e ritrovi, proprio quella spasmodica attesa di un nulla oceanico che alza i gomiti nei pub, per trovarci sotto trova un'ascella pezzata e un desiderio per cui non è mai troppo tardi. Perché quand'è davvero tardi, il desiderio se n'è già bello che andato.
Tutto quello che vogliamo, noi  e questi viaggianti di strada, è benedire ogni passo che facciamo come se potesse essere quello buono per la gloria, per la felicità. Perciò pestare una merda sarà sempre meglio che restare fermi al palo, o alla fermata del bus.
Tutto quello che vogliamo è continuare a vederci impegnati nella vita, giocare con il nostro fine, vederlo allontanare, rincorrerlo, maledirlo e sognare d'abbracciarlo.
Tutto quello che voglio adesso è una colonna sonora.
Le parole sono arrivate. Non so se erano quelle che aspettavo. Cerco di non ascoltarmi mentre penso.
O forse di non pensare mentre mi ascolto.