sabato 3 dicembre 2011

Passi falsi


Non ricordo come si chiamasse quella villa che fronteggiava la finestra del nostro appartamento. Era bianca, presentata alla strada da una cancellata arancione fatta di aste con in cima sfere sempre più grandi man mano che dai lati si arrivava al varco che apriva il cancello. Le due palazzine all'interno erano protette da alberi alti e robusti, che avvolgevano le mura come un denso fumo verde, facendo intravedere solo due delle tante finestre che rubavano aria per rivenderla alle anime nascoste di quella casa.
Non ricordo se la villa avesse un nome, ma ci ripetevamo sempre che un giorno avremmo trovato il modo di entrarvi. Per salire di corsa le scale, spalancare le porte delle stanze serrate (sicuri che anche quella casa, come tutte, avesse delle camere ad accesso limitato) e celebrarci come una sorta di esercito di liberazione, recuperando un antiquariato forse mai esistito, ma che per noi abitava idealmente quegli oscuri spazi interni a prescindere da tutto. Come un'istituzione. Come un ricordo mai nato.
E poi saremmo entrati per guardare il mondo da quelle finestre così vicine ai nostri occhi eppure così distanti dal nostro vivere, fatto di sabbia, di vestiti umidi, di salsedine, di sudore, di accecanti bagliori di vitalità, e di attimi di buio da lasciare in pasto al desiderio. Saremmo entrati e avremmo sporcato tutto con la nostra vita, avremmo tatuato la nostra presenza sul pavimento con i nostri passi rapidi ed eccitati, avremmo agganciato i nostri sospiri al soffitto come lampadari pieni di cristalli mai fermi. E mai banali.


Non ricordo il nome di quella villa. Né la strada, o in che paese si trovasse. E sono una persona di ottima memoria, giacché sono ben descritti nella mia testa il taglio dei tuoi occhi, il caldo tepore della tua mano, il sapore salato della tua lingua, i tuoi nei, ogni metro percorso insieme, quando mi hai chiamato per la prima volta "amore", la misura dei tuoi piedi, il numero delle tue dita, la quantità minima di sguardi al minuto (quattro, ossia uno ogni 15 secondi), la lunghezza delle tue braccia, il confine naturale di ogni carezza, le lacrime aiutate e quelle boicottate; il tempo esatto che mi ci volle per capire che nulla sarebbe stato come prima.
Eppure non ricordo nulla della geografia di quel posto. Forse perché arrivammo lì perdendoci, e smarriti ci rimanemmo. Spersi in un punto, e ovunque. Come quando ci si ferma in mare, e si volge la testa verso la riva a cercare riferimenti puntualmente spostati. Un metro, due, dieci, mille chilometri. Da un posto all'altro del mondo senza saperlo. Senza volerlo. Forse.


Non ricordo, giuro.
Non ricordo se in quella villa ci entrammo mai, o se passammo tutto il tempo a fissarla dalla nostra finestra. Non ricordo se la contemplammo più di quanto non desiderassimo farla nostra. E non ricordo se protestai quando la spogliarono prima delle luci, e poi degli alberi fitti, della cancellata, dei mattoncini di marmo che segnavano la via fino all'uscio e delle panchine che accompagnavano la porta ai due lati. Pian piano sparì tutto il resto, e non ricordo se ce ne accorgemmo mai, né per quanto tempo continuammo a fissare il nulla.
Non ricordo se quella villa è esistita davvero, o se l'ho letta, sognata o disegnata. Non ricordo se ho fatto in tempo a inventarla prima che sparisse definitivamente anche dalla mia testa.
E non ricordo neanche più se manca un pezzo a questa storia. Forse si. Adesso so solo che mi sono perso ancora; ed è questa la mia unica vera storia.


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