venerdì 17 giugno 2011

IL TEMPO DELLE CILIEGIE - Capitolo IV

 - SOLO, SEMPLICEMENTE, ECCESSIVO -


Ed ora cosa le dico?”.
Lo pensava, Apollonio, e continuava a ripeterlo a se stesso mentre le mani strofinavano a più riprese una barba vecchia di settimane, e la testa oscillava verso sinistra, appoggiandosi al vetro di quell’autobus su cui era salito solo per dimenticare la pioggia battente che improvvisa aveva preso a cadere sulla città. Una roba che Apo detestava (la pioggia, non la città, in questo caso) e giudicava male per una vecchia frase di suo nonno: “La pioggia è un cattivo esempio. Se non ti tocca, non ci pensi; puoi anche fissarla, ma è come se non esistesse più.
Apo non ricorda molte cose di suo nonno materno (e neanche una del padre di suo padre, che morì ancor prima che lui nascesse), ma ad ognuno di quei pochi frammenti ha dato un valore preciso, importante, fondamentale. Come il ricordo di quell’unica volta che vide suo nonno andare allo stadio. Una domenica piovosa, sempre la solita maledetta pioggia, e Apollonio che arriva allo stadio insieme al nonno e a un altro cugino, col nonno che decide però di andare a seguire la partita in un altro settore, da solo.
Apo questa scena non l’hai mai dimenticata: il nonno, un tipo che ha sempre amato la compagnia, quel giorno aveva preferito vivere in assoluta solitudine quell’ora e mezza di calci e urla, ossia quello che è il rito comunitario per eccellenza secondo la maggior parte degli abitanti maschi di questa nostra Italia. Lui, da solo, in mezzo alla folla: un’elegante manifestazione di libertà, e un’immagine indelebile per Apollonio, che ancora oggi sceglie di vivere in disparte tutte quelle esperienze in cui è la moltitudine a farla da padrona.

Ma il passato è passato, e Apo, seduto sempre in quell’autobus, continuava a martellare se stesso chiedendosi: “E adesso cosa le dico?”.
Intanto la pioggia aveva quasi smesso di cadere, forse offesa da quei giudizi che Apo aveva ripreso da suo nonno e che aveva fatto subito suoi, indossandoli così com’erano, proprio come farebbe una giovane nipote con un vestito antico e bello ritrovato nell’armadio della nonna. Ma non ci fu neanche il tempo per il vento di spazzar via le nuvole grigie d’acqua, che improvvisamente si palesò, invadente, un ritardatario sole d’aprile. Inopportuno come sanno essere solo certe beffe.
Ma anche col sole Apollonio era sempre lì, testa poggiata al vetro del pubblico trasporto, intento a stracciare le vesti delle sue sinapsi, sconfortato com’era per non aver trovato ancora una risposta al quesito che ormai sapete bene anche voi. Questo formicolio di negatività e insoddisfazione era però destinato a dissolversi ben presto dalla sua testa, e bastò poco, o forse tanto, perché ciò accadesse.
Bastò un arcobaleno, uno dei più classici. La striscia di colori sorprese infatti Apo, e gli impose una riflessione; una riflessione anche banale, ma doverosa. Come quando sbatte una finestra: ritieni sia un evento privo di importanza, eppure ti ha sorpreso, non te l’aspettavi; e tanto basta per dedicarvi quanto meno un pensiero veloce, anche per far sì che non si ripeta più. Ecco l’arcobaleno è più o meno questo, solo molto più bello.

La pioggia, suo nonno, lo stadio, il sole, l’arcobaleno, la finestra che sbatte. E poi il quesito, la solita insoluta domanda. Chiacchiere buone per occupare minuti bianchi come fogli vuoti, i minuti che Apollonio passa sull’autobus. Minuti che poi finiscono, perché l’autobus, prima o poi, alla sua o alla tua destinazione ci arriva. Ed Apo quasi non se n’era accorto di essere arrivato dove doveva arrivare. Scese alla fermata, fece cinquanta passi, guardò l’ingresso di un numero civico e i negozi che vi erano posti accanto, poi scorse velocemente i cognomi sul citofono, quindi vide il portone aperto e si decise ad entrare.
Due rampe di scale a piedi, perché l’ascensore lo prendono i vecchi, e si ritrovò davanti a una porta a pensare per l’ultima e decisiva volta: “E che cazzo le dico?”. Per inerzia, ma forse senza volerlo veramente, suonò il campanello. Poi aspettò, come si aspetta una sentenza della corte. Ed ecco che finalmente la porta si schiuse, e ad accompagnare la porta c’era lei: Ines.
Il buio avvolgeva la testa di Apollonio come il pallino sfocato in una foto copre il volto di un bambino che meriterebbe molta più privacy. Apo fino a quel momento non aveva messo assieme alcuna frase coerente e coesa, e niente faceva pensare che nel breve sarebbe riuscito nell’impresa. Ma poi, al tempo fulmineo della smentita di un politico, aprì la bocca e le diede fiato; e quasi senza accorgersene, come fosse ventriloquo di se stesso, disse:

-         Ines, prima ho visto un arcobaleno e ho pensato a te. Perché mi sei capitata tra le braccia proprio come cade tra le braccia della terra un arcobaleno: bello e improvviso.

Ines sbiancò. Forse l’emozione, forse l’imbarazzo, forse la paura di non saper pensare anche lei una risposta adeguata al contesto. Poi però a quel pallore in volto fu attribuita la giusta causa: la paura. E non appena tirò fuori voce e parole, tutto di lei fu più chiaro:

-         Ma chi sei? Cosa dici? Cosa cerchi da me?... Perché sei qui??

Apo avvertì un colpo di pistola tra mille pugnalate quasi attese, e fra i due iniziò un breve scambio che lo vide capitolare dopo poche riprese:

-         Ines, ma sono io: Apollonio. Abbiamo parlato fino ad un’ora fa su quella chat!
-         Tu sei pazzo! Io non ti conosco, devi andartene!..
-         Ma sono io, cazzo! So tutto di te, parliamo ogni giorno, e tu sai tutto di me. S’era detto che presto ci saremmo visti, ma io non ce l’ho fatta, ed eccomi qua ora. Cos’hai? Che ti è successo?
-         Tu non ci sei, non sei qui, e se sei qui non sei nessuno. Io parlo tutto il giorno con “ApoLux”, che non sei tu! Lo capisci?!..

Così dicendo si allontanò un istante, per recarsi presumibilmente al suo pc, visto che si ripresentò subito all’uscio più irascibile che mai:

-         Perché? Perché non c’è ApoLux lì sullo schermo? Cosa hai fatto?... Perché sei qui?..
-         Ines, tutto questo è assurdo.
-         No, l’unica cosa assurda è che tu abbia rovinato il mio rapporto con ApoLux! Io mi fidavo di lui, e adesso grazie a te è tutto finito. Lui non c’è più, e tu sei qui e mi parli con le sue parole, con le sue pause, con la sua faccia, con la sua anima..
-         Ines, ma..
-         Basta, vattene via! Non so chi sei e non mi interessa. Eri un nome su quel cazzo di monitor, mi trovavo bene a parlare con te. Un giorno forse saremmo stati anche pronti per vederci, ma senza alcuna certezza, perché io volevo solo sentire una voce vicina, una parola, un’idea, qualcosa da cui non dover rintracciare per forza fiducia, ma solo tanta comprensione. Invece tu hai lasciato quel computer per venire qui, credendo ti fosse dovuto qualcosa che andasse oltre quella chat. Perché non mi hai compreso, e non mi comprenderai mai più.

Apollonio sparì dal pianerottolo a passo di zombie. Schiantato come un insetto sul parabrezza dell’auto. La realtà aveva mostrato una delle sue tipiche crepe, quelle in cui ci si infilano alla perfezione i paradossi dell’uomo contemporaneo. La conoscenza senza conoscersi. Il parlare senza parlare. Il sentire senza ascoltare. Condividere senza che ci sia nulla da dare.
Tornato a casa, Apo distrusse ogni traccia della sua presenza su quella e altre chat a cui era iscritto. Più ci ripensava, e più quello che era successo quel giorno gli pareva meno triste di quanto non potesse immaginare. S’era preoccupato per tutto il tempo del tragitto di cosa avrebbe dovuto dire per fare una bella figura, e non aveva minimamente pensato all’idea che potesse non interessarle che lui avesse qualcosa da dire.

Apollonio allora pensò che era quella la vera natura dei legami fittizi della rete. Presupporre negli altri un interesse verso se stessi e le proprie opinioni, che però non c’è quasi mai. Chiudersi in recinti di amici definiti, per affrontare la moltitudine con più spavalderia. Illudersi di dover avere sempre qualcosa da dire. Su tutto, su tutti.
E pensò che questo non è stupido, ma solo brutalmente e drammaticamente eccessivo.
Quindi pensò a suo nonno, a quando andò ad assistere alla partita da solo. E si ricordò che quel giorno gli aveva fatto capire che essere uno tra tanti è l’unico modo per non essere nessuno.


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