Seduto alla panchina, vestito di tutto punto, con solo una virgola di disapprovazione per una camicia troppo gialla, e delle virgolette di sorpresa per un papillon color blu bollino chiquita, stava lì come un segno interrogativo, curvato per meglio adagiarsi alla forma dello schienale. E guardava la gente passare, e su di essa aveva che dire. Sempre, incondizionatamente, una parola.
Un bambino di sette anni, o forse nove, facciamo otto, gli passò avanti a passo lento con in mano un ghiacciolo sciolto. Leccato solo a metà, e puntato verso il basso, il gelato abbandonato aveva la stessa faccia dimessa del suo proprietario. L'uomo alla panchina lo vide ed esclamò: "CANCELLO".
Il bambino si girò, chiese all'uomo di ripetere, e questi ripeté annuendo con sorriso sicuro. Il figlioletto di donna assente rigirò allora la testa, guardò il gelato ormai praticamente latitante, e scoppiò a piangere. Il bambino aveva il pantalone strappato nella cucitura del cavallo, ma l'uomo non poteva saperlo; come non poteva sapere che il pargolo era appena stato scherzato da dei compagni di gioco, compagni per modo di dire. I piccoli bastardi avevano preso a pizzicotti la sua notevole stazza fisica, che non gli aveva permesso di scavalcare un cancello, al rientro dal quale l'ometto s'era pure bucato il pantalone.
Il tizio in panchina smise di ridere. Il bambino stette lì ad aspettare altre parole, come dal maestro di seconda elementare si aspetta la soluzione del problema di quella signora che compra 5 confezioni di uova: considerando che ogni confezione contiene 6 uova, quante uova ha preso la signora? Come dite? Trenta? No, sbagliato: 32! Perché la signora è cleptomane e due uova le ha messe in tasca senza pagarle..
Il fanciullo, deluso e adesso anche confuso, sparì così dall'attenzione dell'uomo seduto, che ora stava con la testa rivolta verso l'alto, quasi ad aspettare che un raggio di sole gli cadesse dritto sul naso, o che una cacca d'uccello lo battezzasse come mai aveva potuto fare la chiesa. Questo finché non arrivò ad incrociare trasversalmente la linea della sua esistenza una bambina morettina, piccola ma neanche tanto. Quasi tre anni, capelli ricci e un fiocco rosso porpora in testa, giocava a muovere quello che forse era stato un pezzo di ramo come fosse la bacchetta magica d'un prestigiatore. O piuttosto provava a sentirsi una direttrice d'orchestra. No, troppo complesso. Vada per l'ipotesi della prestigiatrice..
La creatura mosse la bacchetta troppo velocemente, e questa le scivolò dalle mani andando a infilarsi nello spazio vuoto di un tombino. Addio magia, addio sogno, addio sorriso. La faccetta della minuta si cosparse di inestinguibile tristezza, ma in un modo adulto, che adulto ormai più non è: sobrietà, silenzio, occhi concentrati sul dolore. Poi però parlò l'uomo, quello in panchina, che disse solo: "CAPELLI".
La bimba alzò lo sguardo verso il tipo parlante, le piccole guance s'illuminarono di bianco sorpresa e gli occhi si scetarono come solleticati da un'improvvisa folata di vento. "Capelli" aveva detto l'uomo, e proprio nei capelli la pargola usava mettere quel bastoncino di legno che s'era ormai perso sotto la città. Anzi, a dirla tutta, quella del legnetto tra i capelli era una pratica di suo padre, che a quell'acconciatura per la sua piccola ci teneva parecchio. Evidentemente più di quanto tenesse alla bambina stessa, visto che l'aveva abbandonata un anno prima di quel momento. E la bimba il papà lo ricordava bene, e avrebbe voluto tanto rivederlo, e continuò a fissare l'uomo. Che però non capì, perché non sapeva, e se capì allora se ne infischiò. Così tornò a mirare le nubi.
Ma sentì, a pochi centimetri da lui, i passi e poi la voce di una donna che si fermò nei pressi dell'ormai celebre panchina. Lui non la vide subito, e lei, con i capelli neri legati dietro il collo e un vestito rosso che ricordava vagamente un collage di petali di rosa sulla pelle, destinò la sua attenzione al bambino pieno d'umiliazione e alla piccola donnina aspirante maghetta. I due, dopo le due parole (due di numero) dette dall'uomo, s'erano fermati lì a osservarlo senza dargli alcun fastidio, come se davanti a loro vi fosse un serpente in una teca.
La donna non perse tempo e rimproverò subito quelli che, ben presto si capì, erano i suoi figli:
- E voi cosa ci fate qui? Giorgia non ti avevo detto di restare vicino a me?! E tu, Antonio, quante volte ti ho detto che non devi mai fare questa strada?! Ok, non volete ascoltarmi? Adesso torniamo a casa e facciamo i conti..
- Ma mamma... Ho preso un gelato, mi sono distratto e sono passato... E poi lui ha detto una parola che..
- Si ha detto una parola, lo so. Lo sappiamo tutti. Lui dice sempre una parola..
- Sapeva che ho rotto il pantalone al cancello del campetto!
- Cos'hai rotto?
- Il pantalone, qui in mezzo (e mostra la scucitura). Volevo scavalcare, non ce l'ho fatta.. Scusa (piange).
- Dai Antò lascia stare, fai l'ometto. Non è successo niente: il pantalone lo aggiustiamo a casa, i cancelli imparerai a scavalcarli. Non serve piangere.
- Papà sapeva scavalcare?
- Antò torniamo a casa per piacere?! Non è il momento di parlare di queste cose.
Da più in basso si alzò la voce di Giorgia:
- Mamma senti, lui parla come papà!
La piccola intanto aveva indicato l'uomo della panchina, che restò freddo lì al suo posto e senza neanche muoversi sillabò a voce mite: "PERDONO".
Antonio e Giorgia non capirono; o almeno così pareva dalle loro facce, che forse avevano più sete di sapere che di capire. Silvia, la loro mamma, si accalorò e si colorò di un rosso simile al suo vestito, mischiato però su un viso che raccontava rabbia e rancore: "Una parola. Sempre e solo una parola. Ti basta questo... Mi fai pena."
Silvia scandì bene le ultime lettere, quindi prese per mano i due grandi amori della sua vita, e fece per andarsene. E mentre si avviava, con un tono giusto per farsi sentire man mano che s'allontanava dalla panchina, annunciò: "Allora gioie, adesso andiamo a casa così vi racconto la storia di un uomo triste. Un uomo che ha abbandonato la sua famiglia per cercare la libertà di sposarsi con le parole, una per ogni persona incontrata per strada. E oggi ha trovato una parola anche per voi. E' la parola con cui ha capito d'aver perso tutto."
Un bambino di sette anni, o forse nove, facciamo otto, gli passò avanti a passo lento con in mano un ghiacciolo sciolto. Leccato solo a metà, e puntato verso il basso, il gelato abbandonato aveva la stessa faccia dimessa del suo proprietario. L'uomo alla panchina lo vide ed esclamò: "CANCELLO".
Il bambino si girò, chiese all'uomo di ripetere, e questi ripeté annuendo con sorriso sicuro. Il figlioletto di donna assente rigirò allora la testa, guardò il gelato ormai praticamente latitante, e scoppiò a piangere. Il bambino aveva il pantalone strappato nella cucitura del cavallo, ma l'uomo non poteva saperlo; come non poteva sapere che il pargolo era appena stato scherzato da dei compagni di gioco, compagni per modo di dire. I piccoli bastardi avevano preso a pizzicotti la sua notevole stazza fisica, che non gli aveva permesso di scavalcare un cancello, al rientro dal quale l'ometto s'era pure bucato il pantalone.
Il tizio in panchina smise di ridere. Il bambino stette lì ad aspettare altre parole, come dal maestro di seconda elementare si aspetta la soluzione del problema di quella signora che compra 5 confezioni di uova: considerando che ogni confezione contiene 6 uova, quante uova ha preso la signora? Come dite? Trenta? No, sbagliato: 32! Perché la signora è cleptomane e due uova le ha messe in tasca senza pagarle..
Il fanciullo, deluso e adesso anche confuso, sparì così dall'attenzione dell'uomo seduto, che ora stava con la testa rivolta verso l'alto, quasi ad aspettare che un raggio di sole gli cadesse dritto sul naso, o che una cacca d'uccello lo battezzasse come mai aveva potuto fare la chiesa. Questo finché non arrivò ad incrociare trasversalmente la linea della sua esistenza una bambina morettina, piccola ma neanche tanto. Quasi tre anni, capelli ricci e un fiocco rosso porpora in testa, giocava a muovere quello che forse era stato un pezzo di ramo come fosse la bacchetta magica d'un prestigiatore. O piuttosto provava a sentirsi una direttrice d'orchestra. No, troppo complesso. Vada per l'ipotesi della prestigiatrice..
La creatura mosse la bacchetta troppo velocemente, e questa le scivolò dalle mani andando a infilarsi nello spazio vuoto di un tombino. Addio magia, addio sogno, addio sorriso. La faccetta della minuta si cosparse di inestinguibile tristezza, ma in un modo adulto, che adulto ormai più non è: sobrietà, silenzio, occhi concentrati sul dolore. Poi però parlò l'uomo, quello in panchina, che disse solo: "CAPELLI".
La bimba alzò lo sguardo verso il tipo parlante, le piccole guance s'illuminarono di bianco sorpresa e gli occhi si scetarono come solleticati da un'improvvisa folata di vento. "Capelli" aveva detto l'uomo, e proprio nei capelli la pargola usava mettere quel bastoncino di legno che s'era ormai perso sotto la città. Anzi, a dirla tutta, quella del legnetto tra i capelli era una pratica di suo padre, che a quell'acconciatura per la sua piccola ci teneva parecchio. Evidentemente più di quanto tenesse alla bambina stessa, visto che l'aveva abbandonata un anno prima di quel momento. E la bimba il papà lo ricordava bene, e avrebbe voluto tanto rivederlo, e continuò a fissare l'uomo. Che però non capì, perché non sapeva, e se capì allora se ne infischiò. Così tornò a mirare le nubi.
Ma sentì, a pochi centimetri da lui, i passi e poi la voce di una donna che si fermò nei pressi dell'ormai celebre panchina. Lui non la vide subito, e lei, con i capelli neri legati dietro il collo e un vestito rosso che ricordava vagamente un collage di petali di rosa sulla pelle, destinò la sua attenzione al bambino pieno d'umiliazione e alla piccola donnina aspirante maghetta. I due, dopo le due parole (due di numero) dette dall'uomo, s'erano fermati lì a osservarlo senza dargli alcun fastidio, come se davanti a loro vi fosse un serpente in una teca.
La donna non perse tempo e rimproverò subito quelli che, ben presto si capì, erano i suoi figli:
- E voi cosa ci fate qui? Giorgia non ti avevo detto di restare vicino a me?! E tu, Antonio, quante volte ti ho detto che non devi mai fare questa strada?! Ok, non volete ascoltarmi? Adesso torniamo a casa e facciamo i conti..
- Ma mamma... Ho preso un gelato, mi sono distratto e sono passato... E poi lui ha detto una parola che..
- Si ha detto una parola, lo so. Lo sappiamo tutti. Lui dice sempre una parola..
- Sapeva che ho rotto il pantalone al cancello del campetto!
- Cos'hai rotto?
- Il pantalone, qui in mezzo (e mostra la scucitura). Volevo scavalcare, non ce l'ho fatta.. Scusa (piange).
- Dai Antò lascia stare, fai l'ometto. Non è successo niente: il pantalone lo aggiustiamo a casa, i cancelli imparerai a scavalcarli. Non serve piangere.
- Papà sapeva scavalcare?
- Antò torniamo a casa per piacere?! Non è il momento di parlare di queste cose.
Da più in basso si alzò la voce di Giorgia:
- Mamma senti, lui parla come papà!
La piccola intanto aveva indicato l'uomo della panchina, che restò freddo lì al suo posto e senza neanche muoversi sillabò a voce mite: "PERDONO".
Antonio e Giorgia non capirono; o almeno così pareva dalle loro facce, che forse avevano più sete di sapere che di capire. Silvia, la loro mamma, si accalorò e si colorò di un rosso simile al suo vestito, mischiato però su un viso che raccontava rabbia e rancore: "Una parola. Sempre e solo una parola. Ti basta questo... Mi fai pena."
Silvia scandì bene le ultime lettere, quindi prese per mano i due grandi amori della sua vita, e fece per andarsene. E mentre si avviava, con un tono giusto per farsi sentire man mano che s'allontanava dalla panchina, annunciò: "Allora gioie, adesso andiamo a casa così vi racconto la storia di un uomo triste. Un uomo che ha abbandonato la sua famiglia per cercare la libertà di sposarsi con le parole, una per ogni persona incontrata per strada. E oggi ha trovato una parola anche per voi. E' la parola con cui ha capito d'aver perso tutto."
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