venerdì 13 novembre 2015

L'Italia, il Belgio e quell'isola di dolore


Oggi, 13 novembre 2015, l'Italia sfida il Belgio.
Sedici anni fa, il 13 novembre 1999, l'Italia sfidava il Belgio.

Me lo ricordo perché ero a casa dei miei nonni paterni, anche se mio nonno era purtroppo andato via da qualche mese; naturalmente insieme a mio padre, naturalmente incollato alla tv a vedere la partita, naturalmente bramoso di minuti di calcio da guardare avidamente, com'ero allora e come in fondo sarei ancora adesso, se non ci fosse una partita al giorno.

Me lo ricordo perché si giocava allo stadio Via del Mare di Lecce.
Me lo ricordo perché giocavamo contro coloro i quali, di lì a pochi mesi, avrebbero ospitato in coabitazione con l'Olanda quell'Europeo che avrebbe reso celebri, tra le altre cose, le mani di Toldo e il culo della Francia.
Me lo ricordo perché Paolo Vanoli, terzino sinistro dalla carriera meno redditizia di quanto avrebbe meritato, arrivato al grande calcio solo nel 1998 grazie al Parma di Malesani che lo acquistò dal Verona in tempo per fargli vincere una Coppa Uefa con tanto di gol in finale, andò in rete quella sera di novembre a Lecce con un bolide di sinistro che sbatté sotto la traversa prima di finire alle spalle del portiere Gaspercic.
Me lo ricordo perché io di partite del Belgio ne ricordo abbastanza; attitudine figlia probabilmente di una certa simpatia dai tratti istintivi iniziata ad Usa '94 grazie a quel formidabile numero uno che era Michel Preud'homme, e coltivata attraverso le immagini di un altro grande portiere belga, l'adorabile buffone Jean Marie Pfaff.
Me lo ricordo perché mi è sempre piaciuta la maglia rosso acceso della Nazionale del Belgio, e il loro soprannome, i diavoli rossi, che ben si sposava con il marchio fondativo della mia squadra, il Foggia.
Me lo ricordo perché perdemmo 3-1 in casa, andando di nuovo sotto, dopo il momentaneo pareggio di Vanoli, prima con il vecchio attaccante Wilmots e poi con Goor.
E me lo ricordo perché due giorni prima soltanto, a qualche centinaio di metri da casa dei miei nonni, che hanno sempre abitato all'ultimo dei cosiddetti "quatt palazz", quartetto di edifici popolari tirati su in Via Lucera, quasi estremo avamposto residenziale prima della campagna, proprio lì vicino insomma, in Viale Giotto 120, era crollato un palazzo. Grande: 26 appartamenti, 71 residenti. Ne morirono 67.
Me lo ricordo perché il palazzone si era accartocciato e sbriciolato, mentre restava sorprendentemente e fortunatamente piedi l'adiacente edificio gemello, eroso dalle sue stesse fondamenta.
Me lo ricordo perché mentre raggiungevamo casa dei miei nonni, a piedi perché le vie della zona della tragedia erano ovviamente chiuse al traffico, mio padre ed io passammo proprio di fronte a quel cumulo di macerie attorniato da vigili del fuoco, giornalisti e gente spaesata; la polvere esplosa da quell'ammasso di finto cemento (ma questo l'avrei saputo soltanto dopo) disegnava l'aria di un colore che direi grigio, ma che in realtà sarebbe più esatto definire bianco, come fumo di gomma che brucia, ma più denso e asfissiante.
Me lo ricordo perché dentro quella nuvola opaca, e illuminata da fari che non avevano più nessuno da salvare, io ebbi per un attimo la netta sensazione di non essere più a Foggia, nella mia città, ma in un altro luogo, sperduto. Come un'isola di dolore.


























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