domenica 8 febbraio 2015

Non si può andare sempre avanti. (O del perché vorrei chiamarmi Fernando)

Manchester rossa, 19-4-2000

Vicino alla fine. Neanche tre metri di campo, che sono quasi come tre ore, o trenta minuti.
L'avversario è alle costole, potrebbe mordere un braccio. Il destro, per la precisione. Ha scelto quella zona, perché solo di là ha senso andare. Dinanzi c'è il limite imposto dalla società, a sinistra il pericoloso mistero della natura sotto forma di altri cannibali a cui sarebbe lecito non offrire il fianco.
Servirebbe un fratello, gemello, che si staccasse dal corpo e andasse via con la palla, nascondendola, e cercando per essa un futuro migliore. Una vera nuova occasioneUna fuga, dalla sagoma nero prestigio. Ora che è possibile solo fermarsi, ora che tutti s'aspettano una presa di posizione. Anche per via di quella fascia al braccio, che stringe il sangue e ne onora la circolazione.
Tocca farsi largo con un'azione di retrovia, sgomberare i vicoli bui, abbattere il muro alle spalle e ritrovare il resto della truppa, che ha perso il suo capo e la rotta.
Gli occhi guardano avanti, le braccia si aprono in avanti, i piedi sono proiettati avanti, il busto è spinto in avanti. Il pallone, come sempre: avanti. Serve un colpo netto che lo spinga via, affinché scappi, superi le linee nemiche e ritrovi il proprio posto nel gioco delle parti, che vuole vederlo tendere verso una delle due porte.
Tacco. Perché occorre il colpo coraggioso, quello con la sfera che sfreccia e fugge indisturbata dal retro, mentre l'essere umano fa da esca e resta fermo a sperare che il piano vada come aveva esattamente progettato che andasse.
L'angolo è stretto, il pensiero è veloce, l'esecuzione perfetta, la gloria eterna: la generosità ha pagato, ora bisogna pensare a dare un senso a tutto quanto il resto.
Ma attenzione: anche la sagoma fugge! L'uomo in nero non è più costretto, è libero! Ha seguito la scia tracciata dal pallone e si è divincolato, ha spezzato le catene della marcatura. Sapeva tutto: aveva guardato alle proprie spalle pur non potendo vedere; aveva capito d'essere egli stesso la sola e unica via d'uscita su cui fare affidamento.
Ed è quindi di una grazia virile ed eccitata che si riscopre piena la sua corsa, mentre raggiunge il cuoio che lo aspetta impaziente sull'erba, pronto a non varcare la linea di fondo.
Perché la palla non sarà mai sola e l'uomo non sarà mai schiavo, finché saranno idee e spirito a guidarli.


È così che nasce il futuro, e Fernando Redondo lo sapeva, quella sera. L'ha sempre saputo.

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