martedì 23 aprile 2013

Gli insegnamenti del mio professore di caos



"La risposta è ciò che cerchi quando non hai una domanda".
Il mio professore lo diceva sempre. Si, non era un professore con le idee molto chiare, almeno per me. Raramente ho capito cosa volesse intendere. Ma d'altronde esisteva proprio per quello: era il mio professore di confusione. Teneva un corso di "Caos applicato alle teorie di auto-conservazione"; già dal nome si capiva (per modo di dire) che per il resto di quei giorni avremmo capito poco.

Adorabile, entrava in aula camminando all'indietro perché a suo parere l'immagine della schiena ci avrebbe distolto dall'idea del suo ingresso e dall'inizio della lezione. Una sorta di contraccettivo alla disattenzione.
Anche per questo contravveniva alla più logiche norme di educazione: spesso, come facesse non ho ancora capito (si, il verbo sarà una costante di queste righe), urlava con forza "scusate" e solo dopo 20-30 secondi lasciava partire uno starnuto flebile e di gran lunga più silenzioso della sua presentazione; altre volte, mentre parlava, si interrompeva per ordinarci di andare in bagno o uscire a fare due passi, che noi volessimo o meno.
E che dire di quando fece impazzire il bidello affinché montasse nella nostra aula il proiettore con relativa struttura, e dopo le fatiche del poverino decise di uscire e di farci fare lezione all'aperto. Ricordo che quella volta provai a chiedergli, con discrezione: "Professore, ma perché l'ha fatto?"
Non l'avessi mai fatto io: mi spiegò che le diapositive erano brutte e inutili, e che lui se n'era accorto soltanto dopo; ma a quel punto mi rispedì comunque in classe a guardarle da solo, se tanto ci tenevo.
Non si sta a fare la tara sulla scelta di un insegnante, mi fece capire. Oddio, diciamo che questa è la spiegazione che mi sono dato anni dopo.

Nella mia memoria è rimasto tuttora illeso pure il suo rapporto con la fede. Pregava in una maniera che non saprei definire in altro modo che assurda. Parlava col cielo in un linguaggio spiritual-burocratico, quasi come applicasse dei commi alle sue riflessioni. Una volta lo sentii dire testualmente: "Signore, le affido la richiesta del giorno 12, come accordato in relativa data. Però si impegni un po' di più di quanto preventivato: la situazione è critica."
Resto dell'idea che quella professione e quell'insegnamento gli avessero divorato l'anima come un tumore benigno, smontando una mente altrimenti lucida e ficcante. Una sera io ed alcuni amici lo incontrammo con grande sorpresa al bancone di un pub. Ci disse che stava preparando la lezione del giorno seguente, e noi sbuffammo sorridenti e sornioni, pensando all'ennesimo disorientamento "didattico" e immaginando chissà quale voglia di alcool e solitudine l'avessero invece trascinato in quel locale all'una di notte.
Il giorno dopo, neanche a dirlo, trovammo sui banchi un boccale di birra per ogni posto a sedere, mentre lui seduto alla cattedra sorseggiava già il suo, e aspettava che lo accompagnassimo così che potesse iniziare la lezione: trattò per due intere ore di modi per smettere di bere quando si avrebbe invece voglia di continuare, di maniere per fingere interesse nelle conversazioni senza proferire una sola parola, e di saluti finali calorosi che riescano però nello stesso tempo a non dare all'interlocutore di bevuta l'idea che ci si rivedrà a breve.

Tutte tattiche in gran parte poi smentite dall'esperienza dei fatti. Ma d'altronde ancora adesso, dopo anni di libri e compiti, faccio fatica a risolvere un'equazione e a capire Hegel, quindi non ne farei una questione personale o di metodo.
Anzi, avere un maestro nel fraintendimento volontario e consapevole è stato un vantaggio, ora posso dirlo.
Ho in mente un concetto ben preciso che devo soltanto a lui. Quando mi spiegò che "andare e venire non sono contrari, non sono sinonimi, non sono stati dell'anima, non sono percezioni, non sono scelte, non sono storie di vita".
Ed io mi affrettai a chiedergli cosa fossero.
E lui disse: "Soltanto due verbi".




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