Il mio professore lo diceva sempre. Si, non era un professore con le idee molto chiare, almeno per me. Raramente ho capito cosa volesse intendere. Ma d'altronde esisteva proprio per quello: era il mio professore di confusione. Teneva un corso di "Caos applicato alle teorie di auto-conservazione"; già dal nome si capiva (per modo di dire) che per il resto di quei giorni avremmo capito poco.
Adorabile, entrava in aula camminando all'indietro perché a suo parere l'immagine della schiena ci avrebbe distolto dall'idea del suo ingresso e dall'inizio della lezione. Una sorta di contraccettivo alla disattenzione.
Anche per questo contravveniva alla più logiche norme di educazione: spesso, come facesse non ho ancora capito (si, il verbo sarà una costante di queste righe), urlava con forza "scusate" e solo dopo 20-30 secondi lasciava partire uno starnuto flebile e di gran lunga più silenzioso della sua presentazione; altre volte, mentre parlava, si interrompeva per ordinarci di andare in bagno o uscire a fare due passi, che noi volessimo o meno.
E che dire di quando fece impazzire il bidello affinché montasse nella nostra aula il proiettore con relativa struttura, e dopo le fatiche del poverino decise di uscire e di farci fare lezione all'aperto. Ricordo che quella volta provai a chiedergli, con discrezione: "Professore, ma perché l'ha fatto?"
Non l'avessi mai fatto io: mi spiegò che le diapositive erano brutte e inutili, e che lui se n'era accorto soltanto dopo; ma a quel punto mi rispedì comunque in classe a guardarle da solo, se tanto ci tenevo.
Non si sta a fare la tara sulla scelta di un insegnante, mi fece capire. Oddio, diciamo che questa è la spiegazione che mi sono dato anni dopo.
Nella mia memoria è rimasto tuttora illeso pure il suo rapporto con la fede. Pregava in una maniera che non saprei definire in altro modo che assurda. Parlava col cielo in un linguaggio spiritual-burocratico, quasi come applicasse dei commi alle sue riflessioni. Una volta lo sentii dire testualmente: "Signore, le affido la richiesta del giorno 12, come accordato in relativa data. Però si impegni un po' di più di quanto preventivato: la situazione è critica."
Resto dell'idea che quella professione e quell'insegnamento gli avessero divorato l'anima come un tumore benigno, smontando una mente altrimenti lucida e ficcante. Una sera io ed alcuni amici lo incontrammo con grande sorpresa al bancone di un pub. Ci disse che stava preparando la lezione del giorno seguente, e noi sbuffammo sorridenti e sornioni, pensando all'ennesimo disorientamento "didattico" e immaginando chissà quale voglia di alcool e solitudine l'avessero invece trascinato in quel locale all'una di notte.
Il giorno dopo, neanche a dirlo, trovammo sui banchi un boccale di birra per ogni posto a sedere, mentre lui seduto alla cattedra sorseggiava già il suo, e aspettava che lo accompagnassimo così che potesse iniziare la lezione: trattò per due intere ore di modi per smettere di bere quando si avrebbe invece voglia di continuare, di maniere per fingere interesse nelle conversazioni senza proferire una sola parola, e di saluti finali calorosi che riescano però nello stesso tempo a non dare all'interlocutore di bevuta l'idea che ci si rivedrà a breve.
Tutte tattiche in gran parte poi smentite dall'esperienza dei fatti. Ma d'altronde ancora adesso, dopo anni di libri e compiti, faccio fatica a risolvere un'equazione e a capire Hegel, quindi non ne farei una questione personale o di metodo.
Anzi, avere un maestro nel fraintendimento volontario e consapevole è stato un vantaggio, ora posso dirlo.
Ho in mente un concetto ben preciso che devo soltanto a lui. Quando mi spiegò che "andare e venire non sono contrari, non sono sinonimi, non sono stati dell'anima, non sono percezioni, non sono scelte, non sono storie di vita".
Ed io mi affrettai a chiedergli cosa fossero.
E lui disse: "Soltanto due verbi".
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