In un punto sperduto nell'universo, a capo di una banda di rivoltosi senza ideali, un uomo Senza Alcun Valore si accingeva a conquistare territori dissestati e poveri di qualsiasi risorsa.
Ci impiegò poco tempo, non trovando dinanzi a sé alcuna opposizione. Di sforzi fisici i suoi uomini, sciatti e trasandati, non ne fecero. E ad accoglierli trovarono, nella terra di conquista, gruppetti rarefatti di individui mossi a interesse non tanto dall'idea che fosse pronto ad instaurarsi un nuovo potere, quanto piuttosto dalla novità insita nelle facce dei nuovi arrivati.
Cosa avrebbe portato la nuova giunta di potere? Nessuno se ne preoccupò. Bastarono un paio di feste nella grande piazza, delle ritinteggiate date qua e là su muri vecchi come il genere umano, un albero piantato sulla via d'accesso alla città, un altro sulla via di fuga, e tutto sembrò rinascere con nuove forme e nuove intenzioni.
Ma alla realtà dei fatti, o delle cose non fatte, la vera differenza tra il vecchio e il nuovo potere fu che quest'ultimo impose a tutta la popolazione un unico grande divieto: quello di ridere. Non si poteva più ridere, per alcun motivo. Risate di circostanza, risate maliziose, risate ironiche, risate sdrammatizzanti, risate amare, risate di gusto, risate senza senso: furono vietate tutte.
Il popolo non parve interessato alla questione. A nessuno preoccupò il non poter più ridere, soprattutto dopo che il comandante Senza Alcun Valore ricordò che gli uomini possono vivere e morire di solo pianto, o di serietà, se non persino di menefreghismo.
La gente del luogo smise di ridere. Agì per costrizione, certo, ma senza fare alcun dramma (nonostante la cosa fosse permessa!). Si trattava di persone chiuse, solitarie e apatiche. Non gli importava il senso implicito di ciò che decideva il potere, l'unica cosa che contava davvero era che ogni imposizione riguardasse e fosse rispettata da tutta la popolazione. Uguaglianza di fronte alla legge e dentro la legge, qualsiasi essa fosse.
Infatti non protestò nessuno, come detto. O quasi nessuno. C'era infatti un giovane di nome Ariel, basso e con in testa una folla di capelli rossi arricciati a caso, a cui ridere piaceva tanto. E non aveva la benché minima intenzione di smettere. Anche lui era solito passare le giornate sempre solo. Ma a differenza degli altri Ariel non lo faceva per sua scelta, bensì perché veniva ignorato e allontanato a causa del suo essere forestiero. Si era trasferito in quelle terre pochi anni prima, terminando una fuga solitaria che l'aveva trascinato via dal suo paese d'origine, preda di una feroce guerra civile. In guerra aveva perso i genitori e alcuni amici; la guerra gli aveva distrutto casa e scuola; la guerra insomma gli aveva tolto la vita. Ariel aveva visto violenza e sangue per gran parte della sua breve esistenza. Quando decise di abbandonare il posto in cui era nato e vissuto, di lacrime non ne aveva quasi più. E, fuggendo, era pronto a lasciarsi alle spalle anche tutta la rabbia per un destino incomprensibile, che aveva schiacciato le anime a lui più care come un gigante maledetto dall'umanità.
Ariel non accettò mai, neppure per un secondo, l'idea di non poter più ridere. Anche da solo, davanti allo specchio per un'espressione più stupida del solito, o magari ripensando a una frase sentita settimane prima di cui solo ora riusciva a gustare il valore comico. Osservare la natura lo divertiva. Fissare gli abitanti del luogo e le loro strane manie di decentramento sociale, di cui spesso era causa primaria, gli insinuava un piacevole senso di ilarità diffusa. Insomma Ariel di piangere non aveva più le forze, e la parola "menefreghismo" neanche immaginava cosa potesse significare: lui sapeva e doveva ridere.
Ecco perché continuò le sue pratiche in barba ad ogni divieto, abile com'era nel dissimulare e trasformare qualsiasi accenno di sorriso in un'inutile piega facciale sommessa qualora si trovasse dinanzi a ufficiali del governo. Perché va bene tener fede ai propri principi, ma andare in galera per un sorriso sarebbe stato da stronzi!
Purtroppo al resto della popolazione tutto ciò non stava bene, quel patto d'uguaglianza col nuovo capo Senza Alcun Valore stava venendo meno. Ariel doveva sparire dalla vita pubblica di quella comunità, spiegò il capo alla sua banda, altrimenti si sarebbe rischiato un sovvertimento del nuovo ordine costituito. Fu così che dovette darsi alla macchia, nascondersi e scappare più di quanto non avesse già fatto in tutta la sua vita. Ma quando popolo e guardie collaborano nelle ricerche, fuggire diventa impossibile per chiunque. Ed infatti venne arrestato dopo poche settimane di latitanza.
Ariel fu portato in piazza per un processo-farsa a cui sarebbe seguita una condanna pubblica. Era così che il potere politico pensava di riacquistare credibilità agli occhi della comunità. Condannando platealmente l'unico disobbediente. Ora sarebbe bastato vedergli fare un mezzo sorriso, e di lì alla cella il passo sarebbe stato diretto.
Iniziarono a sfornare battute ridicole, sketch di una demenza irriverente, scene dei film di Boldi e De Sica, edizioni del tg4, vignette di Forattini, comizi della Lega Nord, puntate a caso del "Bagaglino", prime pagine di "Libero", varie biografie non autorizzate di Capezzone e Bondi, gli dissero più volte che "Studio Aperto" era un telegiornale ...insomma fecero di tutto, ma Ariel non mosse di un centimetro la faccia. Iniziarono a sputarsi in faccia, a cadere di culo a terra, a gettarsi torte come a una festa di adolescenti. Niente, nessuna parvenza di sorriso.
Tutti iniziarono a pensare che forse il ragazzo non avrebbe mai riso. Che forse quella legge era un po' stupida e inutile se il reato non poteva poi essere provato. E non si potrebbe condannare qualcuno senza una prova a suo carico. Si pensava tutto questo, fino a che non si vide il capo Senza Alcun Valore scendere irato dal suo trono, dirigersi verso la sedia del ragazzo, e infastidire con le dita le zone più sensibili del suo corpo come il collo o i fianchi. Una tortura per Ariel. Si contorse più volte, e nell'atto di rifiutare quell'abuso distese i muscoli facciali verso l'alto in una smorfia nervosa e sofferta, che solo un essere disumano potrebbe scambiare per un sorriso. L'ingiustizia era compiuta.
Ecco il sorriso. Ariel poteva essere portato in carcere. La platea sbalordita e inerme dimostrò d'esser favorevole a quanto stava accadendo più per timore verso il capo Senza Alcun Valore, che per una reale convinzione intima.
Ariel stava andando via, ma trovò ancora il tempo di urlare: "Siete solo una moltitudine di stolti: una stoltitudine!..". Chinò il capo e si lasciò portar via. Intanto sui volti della folla iniziarono a spuntare, prima tiepidi e tirati, poi sempre più marcati, sorrisi e sguardi divertiti. Stavano ripensando alla frase di Ariel, e ridevano.
Ridevano felici. Perché ora erano di nuovo tutti uguali. Erano tutti colpevoli.
Ma alla realtà dei fatti, o delle cose non fatte, la vera differenza tra il vecchio e il nuovo potere fu che quest'ultimo impose a tutta la popolazione un unico grande divieto: quello di ridere. Non si poteva più ridere, per alcun motivo. Risate di circostanza, risate maliziose, risate ironiche, risate sdrammatizzanti, risate amare, risate di gusto, risate senza senso: furono vietate tutte.
Il popolo non parve interessato alla questione. A nessuno preoccupò il non poter più ridere, soprattutto dopo che il comandante Senza Alcun Valore ricordò che gli uomini possono vivere e morire di solo pianto, o di serietà, se non persino di menefreghismo.
La gente del luogo smise di ridere. Agì per costrizione, certo, ma senza fare alcun dramma (nonostante la cosa fosse permessa!). Si trattava di persone chiuse, solitarie e apatiche. Non gli importava il senso implicito di ciò che decideva il potere, l'unica cosa che contava davvero era che ogni imposizione riguardasse e fosse rispettata da tutta la popolazione. Uguaglianza di fronte alla legge e dentro la legge, qualsiasi essa fosse.
Infatti non protestò nessuno, come detto. O quasi nessuno. C'era infatti un giovane di nome Ariel, basso e con in testa una folla di capelli rossi arricciati a caso, a cui ridere piaceva tanto. E non aveva la benché minima intenzione di smettere. Anche lui era solito passare le giornate sempre solo. Ma a differenza degli altri Ariel non lo faceva per sua scelta, bensì perché veniva ignorato e allontanato a causa del suo essere forestiero. Si era trasferito in quelle terre pochi anni prima, terminando una fuga solitaria che l'aveva trascinato via dal suo paese d'origine, preda di una feroce guerra civile. In guerra aveva perso i genitori e alcuni amici; la guerra gli aveva distrutto casa e scuola; la guerra insomma gli aveva tolto la vita. Ariel aveva visto violenza e sangue per gran parte della sua breve esistenza. Quando decise di abbandonare il posto in cui era nato e vissuto, di lacrime non ne aveva quasi più. E, fuggendo, era pronto a lasciarsi alle spalle anche tutta la rabbia per un destino incomprensibile, che aveva schiacciato le anime a lui più care come un gigante maledetto dall'umanità.
Ariel non accettò mai, neppure per un secondo, l'idea di non poter più ridere. Anche da solo, davanti allo specchio per un'espressione più stupida del solito, o magari ripensando a una frase sentita settimane prima di cui solo ora riusciva a gustare il valore comico. Osservare la natura lo divertiva. Fissare gli abitanti del luogo e le loro strane manie di decentramento sociale, di cui spesso era causa primaria, gli insinuava un piacevole senso di ilarità diffusa. Insomma Ariel di piangere non aveva più le forze, e la parola "menefreghismo" neanche immaginava cosa potesse significare: lui sapeva e doveva ridere.
Ecco perché continuò le sue pratiche in barba ad ogni divieto, abile com'era nel dissimulare e trasformare qualsiasi accenno di sorriso in un'inutile piega facciale sommessa qualora si trovasse dinanzi a ufficiali del governo. Perché va bene tener fede ai propri principi, ma andare in galera per un sorriso sarebbe stato da stronzi!
Purtroppo al resto della popolazione tutto ciò non stava bene, quel patto d'uguaglianza col nuovo capo Senza Alcun Valore stava venendo meno. Ariel doveva sparire dalla vita pubblica di quella comunità, spiegò il capo alla sua banda, altrimenti si sarebbe rischiato un sovvertimento del nuovo ordine costituito. Fu così che dovette darsi alla macchia, nascondersi e scappare più di quanto non avesse già fatto in tutta la sua vita. Ma quando popolo e guardie collaborano nelle ricerche, fuggire diventa impossibile per chiunque. Ed infatti venne arrestato dopo poche settimane di latitanza.
Ariel fu portato in piazza per un processo-farsa a cui sarebbe seguita una condanna pubblica. Era così che il potere politico pensava di riacquistare credibilità agli occhi della comunità. Condannando platealmente l'unico disobbediente. Ora sarebbe bastato vedergli fare un mezzo sorriso, e di lì alla cella il passo sarebbe stato diretto.
Iniziarono a sfornare battute ridicole, sketch di una demenza irriverente, scene dei film di Boldi e De Sica, edizioni del tg4, vignette di Forattini, comizi della Lega Nord, puntate a caso del "Bagaglino", prime pagine di "Libero", varie biografie non autorizzate di Capezzone e Bondi, gli dissero più volte che "Studio Aperto" era un telegiornale ...insomma fecero di tutto, ma Ariel non mosse di un centimetro la faccia. Iniziarono a sputarsi in faccia, a cadere di culo a terra, a gettarsi torte come a una festa di adolescenti. Niente, nessuna parvenza di sorriso.
Tutti iniziarono a pensare che forse il ragazzo non avrebbe mai riso. Che forse quella legge era un po' stupida e inutile se il reato non poteva poi essere provato. E non si potrebbe condannare qualcuno senza una prova a suo carico. Si pensava tutto questo, fino a che non si vide il capo Senza Alcun Valore scendere irato dal suo trono, dirigersi verso la sedia del ragazzo, e infastidire con le dita le zone più sensibili del suo corpo come il collo o i fianchi. Una tortura per Ariel. Si contorse più volte, e nell'atto di rifiutare quell'abuso distese i muscoli facciali verso l'alto in una smorfia nervosa e sofferta, che solo un essere disumano potrebbe scambiare per un sorriso. L'ingiustizia era compiuta.
Ecco il sorriso. Ariel poteva essere portato in carcere. La platea sbalordita e inerme dimostrò d'esser favorevole a quanto stava accadendo più per timore verso il capo Senza Alcun Valore, che per una reale convinzione intima.
Ariel stava andando via, ma trovò ancora il tempo di urlare: "Siete solo una moltitudine di stolti: una stoltitudine!..". Chinò il capo e si lasciò portar via. Intanto sui volti della folla iniziarono a spuntare, prima tiepidi e tirati, poi sempre più marcati, sorrisi e sguardi divertiti. Stavano ripensando alla frase di Ariel, e ridevano.
Ridevano felici. Perché ora erano di nuovo tutti uguali. Erano tutti colpevoli.
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