martedì 7 agosto 2012

La pretesa umanità


La signora con la maglia gialla ha trovato da ridire sul mio modo di camminare, pare che io finga di esser zoppo, rifugiato politico, prigioniero di guerra. Quante ne ha dette, dio santo. Non riusciva a immaginare che potessi aver preso solo una storta alla caviglia, o che avessi un dolore al tallone, o che queste scarpe che calzo senza sosta ormai da un anno possano aver dato ai miei piedi quella sensazione di totale abbandono che prova il condannato all'ergastolo.
Come se io le avessi detto che teneva il braccio sinistro fuori al finestrino per scimmiottare la postura tipica dei cafoni arricchiti provvisti di rolex con cui tentare la microcriminalità malorganizzata, e non invece per il caldo, o perché semplicemente si guida più comodi così.

Questo signore in camicia celeste con le maniche lunghe arrotolate sotto il gomito mi fa sempre tenerezza. Anche oggi, quando l'ho visto fermo a scrutare un punto imprecisato del vuoto opaco che aveva davanti al suo vetro, mentre con la mano continuava a mimare un gesto privo di qualsiasi senso inventato dallo stress quotidiano, che però ho ormai imparato a decodificare come un rifiuto generico misto ad un meno generico "vai via", lo guardavo e pensavo che evidentemente non è me che vorrebbe mandar via, anche perché io non faccio parte della sua vita, e mai sono stato in mezzo ai suoi sogni o ai suoi bisogni.
Così quel gesticolare naturale e scontato sembra quasi una supplica del suo sistema nervoso a farsi portare fuori a prendere fresco, come un cane che prende il guinzaglio e si ferma davanti alla porta di casa aspettando l'arrivo del padrone che lo porterà a passeggiare. Si spera, come spesso si spera di cambiare aria. O almeno di travestirla.

Arriveranno presto a dirmi che provano pena per me, ma non possono fare nulla. Ecco invece questa ragazza bionda, avrà al massimo 21-22 anni, magari molti di più ma portati immaturi, come molti giovani di adesso sanno mostrare. Si avvicina, io praticamente sono fermo, sto pensando a un ricordo fugace che mi ha appena attraversato il cervello, e quando lo sguardo mi riporta pesantemente sull'asfalto fumoso di afa e realtà, lei, la ragazzetta bionda, torna un po' indietro e inizia a muovere la mano destra a palmo aperto verso di me, come se volesse salutarmi, ma senza il saluto.
A me piace guardare da vicino chi vuole mandarmi un messaggio, anche breve, anche minaccioso o negativo, così faccio per andare da lei, che repentinamente però si riporta avanti scandendo a voce sostenuta "No guarda, non è giornata!".
Se si potesse morire di stupore, in quel momento avrei dovuto avere un attacco letale. Ma sarà stato il caldo, sarà stata la secchezza alle pendici della lingua, sarà stato il ricordo che stavo pensando qualche istante prima, con mia mamma intenta a mescolarmi tre uova nel bicchiere la domenica mattina (perché le avevamo un solo giorno a settimana), tant'è che riuscii ad estraniarmi al punto da farmi scivolare di dosso, insieme al sudore, tutta l'incomprensione di quello sguardo e di quelle parole.

Sguardi e parole che rivivo poi di notte, perché io la notte sto sveglio e immagino la vita di queste persone. Ma non sono bravo, a dire il vero; perché per estrapolare la vita da un istante ci vuole tanta immaginazione, ed io purtroppo non ce l'ho; anzi non ce l'ho più, l'ho usata tutta per pensare come sarebbe stato arrivare qui, in Italia.
Fermo ad un semaforo, a sentirmi dire che fingo. A suscitare inutile pietà. A farmi rifiutare uno sguardo da chi giudica la mia vita da un istante. Brutalmente, senza un briciolo d'immaginazione, e senza nemmeno il coraggio di ignorarmi. Per lasciare che continui a ricordare mia madre.


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