Si chiamava Teresa. Aveva le gambe lunghe come due candele bianche che colavano cera lenta, calda, sprecata.
Io non avevo fatto nulla, mi aveva destato dal sonno lei, sputandomi dell'acqua sulla faccia. Letteralmente, con tanto di rumore preparatorio. Per non lasciare nulla al caso, per essere sicura che capissi chi fosse. Poco prima l'avevo buttata in mare di peso, insieme ad Antonio. Lui per gli avambracci, io per le caviglie.
Ma io quelle caviglie non le avrei lanciate mai, sarei rimasto a dondolarle fino a svenire fiacco su di lei. E lo capii meglio quando mi accorsi di avergliele strette troppo, erano rosse furenti sin dal precipizio che legava il tallone al polpaccio liscio e rotondo. Fu sempre lì che realizzai che il polpaccio ha, nella gamba, lo stesso fascino che ha il culo nel totale del corpo.
Mi svegliai, mi sorrise, mi asciugai il volto, mi guardò che sembrava volesse trapassarmi, mi inebetii, mi ignorò.
Se penso a ciò che avrei potuto fare in quei 45 secondi, sinceramente mi viene in mente solo il suo costume bianco. Dal quale non ero io a vedere tutto, ma era il tutto a fissarmi insistentemente. Uscii a prendere una boccata d'aria, e mi accorsi di essere già fuori. Così uscii da me stesso.
Riuscivo a rivedermi mentre aspettavo che uno smottamento del terreno la facesse ritornare quasi sopra di me. Ma senza fare nulla, anzi compiacendomi della mia consapevole nullità, come un fascista qualsiasi. Passò quasi un ventennio di considerazioni inutili e sbagliate, poi Teresa si rivoltò e mi disse una parola tipo "codice alfanumerico". O almeno questo io riuscii a capire, visto che contemporaneamente mi aveva messo una mano sulla coscia.
Mi buttai con l'occhio su quella mano manco si trattasse di un peloso ragno velenoso, (all'aggettivo peloso, lei) mi gettò stupore come fumo negli occhi, mi stupii del suo stupore, mi accarezzò per chiarire che si stupiva del mio stupore per il suo stupore.
Aveva ragione lei. Tra i due stupori, il terzo vince. Intanto per carezzarmi il viso aveva lasciato la gamba: i presenti confermarono che si trattasse dell'ennesima sconfitta. Per me. Si, era la mia mattina in tutto.
Non volli dare al destino l'idea di non aver gradito il pensiero, quindi mi alzai in piedi e dall'alto di una di torre di errori allungai una mano a Teresa: vuoi fare un bagno con me?
Non vi sto a raccontare della pelle d'oca, di ciò che non mi passò per la testa. Certe sensazioni vi si stabilirono proprio, costruirono villette abusive sulla riva della realtà e giurarono di rimanerci fino ad alluvione da stabilire. I muscoli all'interno si sfaldavano come gomme sull'asfalto bollente. Il sangue aveva salutato con un "ciao" veloce il cervello, per andare a dividersi equamente tra intestino tenue e pene.
E anche se la ragione non era presente mentre la vita godeva della vita, come dice Goethe, il passato continuava, l'avvenire viveva in anticipo: l'istante era un'eternità.
Tutto attorno rimbalzava l'eco di me stesso. Che emozione, cazzo!
Poi lei rispose "no".
Finì così. Era la mia giornata d'altronde, mica quella di Teresa.
Nessun commento:
Posta un commento