FOGGIA - CASERTANA o qualcosa del genere
A luci spente. Allungo la mano. E trovo una sciarpa, retta all'estremità da un'altra mano, sempre mia. Non vedo cosa c'è scritto, ma so dove siamo, perché resta illuminata una parte che illumina tutto. Una parte per il tutto. Una sineddoche: la parte è una striscia di campo, il tutto è quello che ho fatto in questi 27 anni quasi ventotto.
In verità non so di preciso cosa sia accaduto dal 3-0 alla Lucchese di Orrico in quella domenica del '91 ad oggi. So che il calcio è diventato nel frattempo un malato terminale; so che i tifosi tifano più a casa che allo stadio; so che dovrò mandare un inutile curriculum non appena finisco di buttare già ste righe; so che ho cambiato curva; so che ho imparato a lasciare e ad essere lasciato; so che non ho mai imparato davvero a farmi la barba; so che ho due nipoti, e giuro non avrei mai immaginato potesse essere una cosa tanto dolce; so che mi fa male la testa, quasi ogni quindici giorni, perché quasi ogni quindici giorni immolo quel che resta di me stesso alla causa meno nobile che esista. Perché "chi te lo fa fare"? Perché 22 coglioni che corrono appresso a una palla. Perché come fai a pensare al calcio? Perché siete rimasti quattro gatti. Perché non vedi che te la fai coi delinquenti? Perché il calcio a Foggia è morto.
A luci spente, ve lo dico: siete morti voi. Tristi approfittatori d'infelicità. Logorroici speculatori del disagio altrui. Cacacazzi. Anzi, no, non ve lo dico. Lascio cantare il buio, dalle cui gole rauche e alcoliche provengono canti improvvisati misti a ululati e battimani fuori tempo. "Alè alè oh oh... 'A matin n's vonn avzà... Alleluja Alleluja... Tu non sai cosa ho fatto quel giorno... Che bello è quando erutta..." ah no, questa non si può dire! È discriminazione geografica, geologica, sociologica, roba da 41-bis insomma.
Loiacono col ginocchio, dicono, hanno detto a fine primo tempo, poi ho riferito pur io, dando il probabile per assodato, e rimettendolo in circolo come certo, ché tanto non interessa a nessuno né il chi e nemmeno il come. Interessa solo l'aria. Quella dentro la palla, quella fuori dalla palla, quella che muove la rete, quella che riporta il boato, quella scaraventata dall'esultare scomposto, quella che ti solleva i piedi da terra.
I playoff, le Madonne invocate, Verile, il fallimento, i soldi che n'g stann, quella buglia della Merletti, De Zerbi resta, i diffidati, Mario Facco e mi gratto, Campilongo, il borghetti, le "spaccate", Sarno e Gigliotti squalificati a Lecce, la Serie B che non vediamo da diciassette anni, le donne: tutto in un soffio. Un pugno al cielo agitato meccanicamente neanche fosse un cric che ti solleva l'anima per portartela nello stato più vicino a quello che si usa definire "un sogno".
A luci spente, in camera mia, ho appena finito di rivedere la partita sul pc; anzi, di vedere, ché mica si guarda granché dal fosso di persone in cui andiamo a ficcarci noi che, più che assistere alla partita, diciamo che la realizziamo, per confrontarla poi con l'avara precisione del racconto di cronaca.
A luci spente, perché non ho bisogno di vedere dove sono. Lo so, lo sento. Sono dove ci si arrende solo all'evidenza, e spesso neanche a quello. Sono nel posto giusto, sono dentro di me, sono a casa. E pure quasi nei playoff.
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